Nei nuovi scenari internazionali conta sempre più l’hard power rispetto al sistema di alleanze. Specie se i possibili alleati, come nel caso dell’Europa, tendono troppo a non assumersi le responsabilità che derivano dall’essere partecipi di un comune destino. Tutti i punti dell’intervento del presidente eletto analizzati da Gianfranco Polillo
La cosa che più ha colpito, nell’istrionico intervento di Donald Trump in quel di Mar-a-Lago (Florida), non sono stati tanto i toni, quanto la nuova precisa indicazione sulla geolocalizzazione degli interessi, che la nuova amministrazione vuole perseguire. Non più il mondo, ma solo quella parte di mondo che coincide con la piattaforma dell’America del Nord: i cui confini sono da un lato il canale di Panama, dall’altro la Groenlandia. Località, queste ultime, da tempo oggetto di osservazione. Ma solo oggi individuate come componenti essenziali di una politica estera disposta anche a ricorrere alle armi pur di inglobarle in un nuovo grande Stato, destinato ad andare oltre i suoi vecchi confini nazionali. Che per forza di cose non potrà che riguardare anche il Canada per garantire, ma non solo, una continuità territoriale. Da qui la proposta di trasformare quell’immenso territorio (50 kilometri quadrati più vasto degli stessi Stati Uniti) nel 51° Stato americano.
Ma perché questa scelta? Da un lato la semplice attualizzazione di quell’isolazionismo che, altre volte, ha caratterizzato la storia americana le cui origini risalgono addirittura ai Padri fondatori. Così George Washington che, nel 1796, auspicava che il nuovo Stato “si tenesse immune da alleanze di carattere permanente con qualsiasi parte del mondo estero”. Oppure Thomas Jefferson che nel1801 metteva in guardia contro i pericoli di un entanglement (coinvolgimento). Per terminare, infine, con James Monroe ed il suo celebre slogan “l’America agli Americani”. Superato solo nel 1916 quando gli Stati Uniti si lasciarono coinvolgere nella Grande guerra degli europei. Per poi tirare subito i remi in barca, salvo doversi ricredere, nel 1937, con Franklin Delano Roosevelt, costretto a ridiscendere in campo, preoccupato dell’ascesa di Adolf Hitler.
Il dramma che oggi vivono gli americani è in parte diverso, anche se brucia il costo delle mille operazioni portate a termine nei vari teatri di guerra in conflitti che non rispondevano ad un loro interesse diretto ed immediato. È il dramma di chi decide di contare soprattutto sulle proprie forze, trincerandosi se necessario, sapendo di non poter fare affidamento sul possibile apporto dei propri alleati. Il cui contributo è stato, la maggior parte delle volte (se si esclude l’Inghilterra) più simbolico che effettivo. Quando invece sul fronte opposto vi sono Paesi, come la Russia di Putin e i suoi sodali (Corea del Nord, Iran, e via dicendo) che non hanno esitato ad intervenire pesantemente contro tutto l’Occidente: dall’Ucraina ad Israele. Senza escludere, poi, la Cina. La cui politica estera è decisamente meno hard, ma non per questo il suo soft power, sul terreno economico e finanziario, è meno pericoloso.
Negli ultimi anni la Groenlandia è divenuta sempre più zona di frontiera. Il riscaldamento globale ha creato fratture profonde nella calotta artica, aprendo nuove possibili vie di comunicazioni. Cosa che ha fatto crescere gli interessi dei tre grandi antagonisti: Usa, Cina e Russia. Quest’ultima aveva già riattivato 50 vecchie postazioni militari dell’epoca sovietica nell’Artico e rimodernato 475 presidi militari, costruiti durante gli anni della “guerra fredda”. Con l’obiettivo di controllare un territorio estremamente vasto, ma soprattutto ricco di risorse (petrolio, gas e terre rare) che la de-glaciazione e lo sviluppo tecnologico rendeva ora possibile sfruttare. La Cina, dal canto suo, fin dal 2018, aveva manifestato l’intenzione di creare la sua “polar silk road” al fine di facilitare gli scambi con l’Europa. Dopo aver allargato la sua sfera d’influenza anche politica in molte zone dell’America Latina, aveva inoltre preso il controllo del Canale di Panama, praticando tariffe che andavano a danno dei vettori battenti bandiera a stelle e strisce.
Per legare la piattaforma continentale, come si diceva all’inizio, il disegno di Trump passa inevitabilmente per un coinvolgimento del Canada. I rapporti tra i due Paesi sono altalenanti: buoni sul piano politico, almeno durante la presidenza Biden; più controversi invece sul piano economico e finanziario. Gli ultimi dati (settembre 2024) indicano un deficit delle partite correnti americane pari al 4,2% del Pil, in larghissima misura (70/80%) causate dal deficit commerciale. Nel 2022 (ultimi dati del Fmi disponibili) il 50,3% del deficit commerciale americano derivava dal commercio con tre Paesi: Cina (32,5%), Messico (11,1%) e Canada (7%). Ma non era nemmeno quest’ultima percentuale a preoccupare quanto i rimanenti rapporti di carattere finanziario. Nel 2023 il debito estero degli Stati Uniti aveva raggiunto il 93,7 per cento. Il credito, invece, vantato dal Canada era pari al 54,4% del Pil. Differenze che contribuiscono a spiegare lo stato di frustrazione del neo-presidente: “Immaginate – ha sospirato Trump – quanto diverrebbe forte il Paese se togliessimo il confine artificiale che ci divide”.
Nella logica di arroccamento appena descritta rientra anche il proposito di cambiare nome al Golfo del Messico per farlo diventare il Golfo dell’America. In questa specie di Mediterraneo del Nuovo Mondo – acque calde, clima temperato, spiagge bianchissime – sono presenti estesi giacimenti di idrocarburi, il cui sfruttamento è stato finora scoraggiato, nel timore di produrre eventi disastrosi, come avvenne per la BP nel 2010. Allora un’esplosione nella piattaforma offshore produsse un danno rilevante. Ma proprio in questi giorni Trump ha reso noto il suo proposito di autorizzare nuove trivellazioni, in odio (seppure in parte giustificato) con i teorici dell’ambientalismo assoluto.
Nonostante ciò, il rapporto con il Messico rimane conflittuale: sbilanciato com’è sul piano commerciale. Con un eccesso di importazioni da parte degli Usa, le cui esportazioni sono, invece, frenate da una distribuzione del reddito fin troppo iniqua. Un ristretto numero di possidenti ed il resto degli abitanti costretti a vivere in condizioni precarie. Per cui i consumi dei prodotti americani è riservato solo ad una piccola fascia di élite. Inoltre quello è il Paese di transito di migliaia di immigrati disposti a tutto pur di giungere nell’Eldorado a pochi passi da quel confine lungo oltre 3 mila kilometri e, di fatto, incontrollabile, nonostante muri e filo spinato. Tanto più che sempre di lì passano i corrieri della droga, le cui disponibilità finanziarie sono tali da consentire forti investimenti per aggirare ogni forma di controllo. La diffusione dei nuovi ritrovati, come il Fentanyl, sta diventando negli Usa un’emergenza nazionale, che rafforza il senso di ostilità sia nei confronti della Cina – ritenuta una delle principali fonti di produzione della sintesi chimica – sia dello stesso Messico per la sua logistica criminale.
C’è quindi tutto questo dietro l’impeto con cui Trump ha affrontato le relative questioni, nel corso della sua conferenza stampa. Ma non solo. Da quell’intervento, per alcuni versi ben più dissacrante rispetto alle parole alle quali pure ci aveva abituato, c’è tutta la sensazione di un profonda incertezza. Il riflesso di un cambiamento che pur si avverte, nonostante la sua incompiutezza. Il rispetto delle vecchie regole internazionali è sempre più un ricordo del passato. L’Onu non è più in grado, con la sua scarsa autorevolezza, di gestire i principali punti di crisi. La forza, quella militare, ha sostituito la diplomazia, alimentando conflitti a non finire. E di conseguenza la corsa al riarmo è ripartita. Nei nuovi scenari internazionali conta sempre più l’hard power rispetto al sistema di alleanze. Specie se i possibili alleati, come nel caso dell’Europa, tendono troppo a non assumersi le responsabilità che derivano dall’essere partecipi di un comune destino.
Nasce forse da qui la richiesta, anch’essa perentoria, di portare il contributo di ciascuno alleato alle spese della Nato al 5% del Pil. Più del doppio rispetto a quanto finora concordato. Una richiesta che lascia intravedere un certo disimpegno americano da quei conflitti che non riguardano da vicino la difesa dei propri interessi strategici. Può ovviamente non piacere, ma una sua logica ce l’ha. Finora l’Ue è vissuta in un ventre di vacca, delegando ad altri i compiti più ingrati e rischiosi. Nel frattempo accumulava ricchezze, grazie ad una prudenza economica e finanziaria restia alla minima avventura. L’opposto di quanto avveniva negli Stati Uniti. Che ora presentono il conto. Da un lato è infatti la loro posizione debitoria complessiva, che è pari all’80% del Pil. Sulla sponda opposta dell’Atlantico, invece, l’Eurozona può vantare crediti pari all’9,9% del Pil. Che nel caso della Germania diventano (dato del 2023) il 53,1% del Pil. Il che spiega molte cose: non solo la crescente insofferenza nei confronti delle vecchie élite di quel Paese; ma la nuova vita di Giorgia Meloni: destinata, forse, a svolgere un ruolo diverso rispetto al passato.