Perché il rapporto tra Erdogan e Netanyahu può amplificare il conflitto in Medio Oriente ma accelerare l’equilibrio in Siria (con un colpo contro i curdi)? Al contempo le ambizioni della Turchia di ripristinare un’influenza in stile patria blu potrebbero portare ad un aumento delle tensioni. Sullo sfondo il ruolo del golfo e i progetti di Trump
Come il rapporto conflittuale tra i leader di Turchia e Israele potrà impregnare il conflitto in Medio Oriente di ulteriore fiele? E in base a quali fattori l’evoluzione della situazione siriana si intreccerà da un lato con le mire erdoganiane in “stile libico” e, dall’altro, con il paniere di alleanze e ambizioni che vede, ad esempio, coinvolta l’Arabia Saudita e la progettualità politica di Mbs? Nel mezzo due elementi: il già citato semi-immobilismo dell’Ue (che per non perdere terreno dovrebbe accelerare una visione più propositiva delle emergenze legate alla contingenza) e l’avvio della nuova stagione alla Casa Bianca.
Quale profondità strategica
Punto di partenza è lo sfarinamento delle presa russa sul Mediterraneo. La fuga del sommergibile di Mosca dalla base navale siriana di Tartus è un risultato tattico che porta soddisfazione in molte cancellerie occidentali, perché de facto la spallata inflitta al regime di Assad determina effetti diretti nel sistema politico e militare russo. Si stima che al momento la Marina russa si trovi nel suo punto più basso da prima dell’invasione dell’Ucraina, da un punto di vista di presenza nel mare nostrum. Attorno a questo elemento gravitano non solo il dossier siriano ma l’intero caso mediorientale legato al conflitto a Gaza, ai rapporti di Tel Aviv con Ue e Usa e alle strategie dei Paesi del golfo.
Perno è la Turchia, così come già osservato più volte da queste colonne: la strategia di Erdogan in Siria è un altro elemento che porta Turchia e Israele più vicine allo scontro. Parte della percezione di tale instabilità si è nuovamente avuta per le strade di Istanbul, quando in migliaia hanno manifestato contro Israele, esprimendo solidarietà ai palestinesi di Gaza. I due leader, inoltre, non fanno mistero di voler concorrere per essere primus inter pares nel quadrante mediorientale. Da un lato Erdogan pressa per costruire un fronte arabo-islamico che fermi quello che lui definisce il “genocidio”, all’interno di un quadro che lo vorrebbe punto di riferimento del mondo musulmano sunnita. Dall’altro, secondo il Comitato governativo Nagel su difesa e sicurezza, Israele deve prepararsi a uno scontro diretto con la Turchia, rea di voler ripristinare la sua influenza.
Qui Golfo
Il Medio Oriente intero dunque si trova in una fase di stravolgimento complessivo, in cui spicca il ruolo dell’Arabia Saudita che, nelle intenzioni, avrebbe voluto esercitare una leadership stabile nel mondo arabo-musulmano, tramite lo sviluppo economico immaginato da Mohammed Bin Salman. Ma l’attacco di Hamas dell’ottobre 2023 ha messo in stand by il business per affrontare le questioni puramente belliche che hanno interessato di riflesso il Libano, l’Iran, l’Ue e gli Usa. Già prima di Natale l’inviato del presidente eletto Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, aveva incontrato il principe ereditario Mohammed Bin Salman, con l’obiettivo di siglare un accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita e lavorare ad una pace duratura dopo l’attacco di Hamas a Israele, così come dichiarato dallo stesso Trump in una intervista al Time.
Ecco che si ritorna al perno Erdogan, dal momento che lo scorso novembre a margine del vertice congiunto straordinario dell’Organizzazione per la cooperazione islamica e della Lega araba svoltosi a Riad, il presidente turco aveva incontrato Mbs per far progredire i rapporti bilaterali tra Turchia e Arabia Saudita. Inoltre lo scorso settembre le banche centrali turche e saudite avevano firmato un memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione, mentre nel marzo scorso i due Paesi avevano firmato un accordo per fornire cinque miliardi di dollari di supporto agli investimenti alla Banca centrale di Ankara attraverso il Fondo saudita per lo sviluppo per stabilizzare il tasso di cambio della lira turca.
Scenari
Unendo i punti geopolitici degli attori in campo si ottiene un quadro d’insieme in cui spiccano due tracce: la volontà turca di gestire il campo siriano da attore protagonista, dopo non essere riuscito ad essere mediatore nella guerra in Ucraina. I tempi della crisi del grano non collimano con quelli di oggi, anche alla luce di condizioni politiche e miliari differenti rispetto a due anni fa: il cambio in corsa a Damasco è stato determinante per una mutazione di forze in campo. In secondo luogo l’effetto Trump non si limita solo ad un rimescolamento di nomi e volti che si stanno dedicando ai dossier più spinosi, ma presenta una caratteristica precisa legata alla volontà di chiudere i conflitti per concentrarsi sul punto primario della nuova amministrazione, ovvero l’economia degli scambi.
Ecco quindi che il rapporto inquietante tra Erdogan e Netanyahu può amplificare il conflitto in MO ma anche accelerare l’equilibrio in Siria (con un colpo contro i curdi). Al contempo le ambizioni della Turchia di ripristinare un’influenza in stile patria blu potrebbero portare ad un aumento esponenziale delle tensioni nell’intera macro regione, ma in attesa delle decisioni di Trump.