Per Formentini (Lega), il cessate il fuoco a Gaza è un passaggio necessario, ma quello che è più necessario è proseguire sulla stabilizzazione mediorientale attraverso lo spirito degli Accordi di Abramo. Il futuro delle regione dipende anche dalla tregua tra Israele e Hamas
“Durante l’incontro si è ribadita la volontà del centrodestra per una pace duratura nella regione dopo l’accordo sugli ostaggi, doloroso per Israele ma necessario per un cessate il fuoco”. Con queste parole, il vicepresidente della commissione Affari Esteri della Camera, Paolo Formentini, ha commentato l’evoluzione delle trattative per una tregua a Gaza. Una dichiarazione che segue l’incontro con il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, alla presenza dell’ambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled, e dei tre capigruppo di maggioranza al Senato, Massimiliano Romeo, Lucio Malan e Maurizio Gasparri, oltre al senatore Marco Scurria.
La visita in Italia del capo della diplomazia del governo Netanyahu arriva in un momento cruciale: nella notte, Hamas avrebbe accettato i termini di una bozza di accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi israeliani. Fonti israeliane hanno confermato nelle ultime ore “progressi significativi” nei negoziati, pur sottolineando che l’intesa non è ancora definitiva. Ci sono reali speranze nel corso della settimana di arrivi a un punto concreto.
Associated Press, che ha ottenuto una copia della bozza dell’accordo, ha rivelato che l’intesa mediata dagli Stati Uniti e dal Qatar prevede tre fasi — secondo previsioni anticipate da tempo, anche partendo uno schema fornito mesi fa dall’amministrazione Biden. La prima riguarda il rilascio di 33 ostaggi israeliani, tra cui donne, bambini, anziani e feriti, in cambio della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi, principalmente donne e minori. Contestualmente, Israele dovrebbe ritirare le truppe dalle aree più popolate di Gaza e garantire un aumento significativo degli aiuti umanitari alla Striscia. La seconda fase, da attuare nelle sei settimane successive, prevede la negoziazione per il rilascio degli altri ostaggi, inclusi uomini adulti e militari, mentre Israele dovrebbe proseguire un ritiro graduale, pur mantenendo una presenza ai confini per ragioni di sicurezza. La terza fase riguarda il recupero dei corpi degli ostaggi deceduti e l’avvio di un piano di ricostruzione e governance di Gaza, con il possibile coinvolgimento di una coalizione internazionale e dei Paesi arabi.
Dietro questi sviluppi c’è un intenso lavoro diplomatico condotto da Washington e dagli alleati — Italia compresa, che ha sempre appoggiato la soluzione politica alla crisi nella Striscia, pur nella difesa del diritto di azione militare israeliana contro Hamas, il gruppo terroristico che ha aperto l’attuale stagione di guerra con il massacro del 10/7.
Lo ha evidenziato anche il dipartimento di Stato: l’amministrazione Biden ha esercitato una forte pressione su Israele e sugli alleati regionali per favorire una tregua sostenibile. Una linea che, sebbene in via meno formale, è stata seguita anche dal Transition Team di Donald Trump. Per il presidente eletto e per quello uscente, la tregua è diventata un fattore strategico di priorità — anche per evitare interferenze di attori rivali. Anche l’Europa è coinvolta secondo questo obiettivo strategico: ieri a Bruxelles, una rappresentanza dei familiari degli ostaggi ha incontrato la responsabile della politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, esprimendo cautela sull’accordo. “Non mi fido di nulla finché non vedo il primo ostaggio liberato”, ha dichiarato Gilad Korngold, il cui figlio è tra i rapiti. Hamas non è un attore statuale, ma un’organizzazione con un’ala armata terroristica, dunque non affidabile in termini degli impegni. Ma i famigliari delle vittime hanno anche criticato Benjamin Netanyahu, accusando il premier di continuare la guerra perché ostaggio delle componenti più radicali del suo esecutivo.
Le prossime ore saranno decisive, anche perché è già successo di arrivare a un passo dal risultato, per vedere poi saltare tutto.
Se partirà, il cessate il fuoco aprirà di fatto il delicato capitolo del “day-after”. Un tema già affrontato dal segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, nel suo intervento all’Atlantic Council di ieri, dove ha delineato una possibile roadmap per Gaza nel post-conflitto. Il piano prevede un’amministrazione provvisoria per l’enclave palestinese, sostenuta da “partner internazionali” e formata da attori locali, che si occuperà di servizi essenziali come banche, acqua, energia e sanità. Prevede inoltre una missione di sicurezza internazionale con il coinvolgimento di Paesi arabi per garantire la stabilità e prevenire il ritorno di Hamas. L’obiettivo finale è il passaggio graduale della governance all’Autorità Palestinese, dopo un processo di riforma interna.
Una visione ambiziosa, che ha ricevuto critiche da parte di attivisti anti-occidentali, i quali accusano gli Usa di favorire una soluzione che non garantisce una vera autonomia ai gazawi. Al contrario, l’amministrazione Biden ritiene che il coinvolgimento dei Paesi arabi nella ricostruzione di Gaza sia la chiave per evitare il ritorno di Hamas e stabilizzare la regione.
Sul futuro del Medio Oriente si è espresso anche Formentini, guardando oltre la crisi attuale e auspicando un rilancio del processo di normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi. “Auspico che con la nuova presidenza Trump si riparta nel solco degli Accordi di Abramo, riprendendo quel percorso di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, purtroppo interrotto dal terribile massacro del 7 ottobre 2023”.
L’idea è che il vero obiettivo della stabilizzazione della regione non può essere una semplice tregua temporanea, ma un quadro politico più ampio che riprenda il processo avviato ormai cinque anni fa, per creare un quadro stabile, cooperativo e inclusivo nella gestione delle dinamiche regionali. In questo senso, il piano post-bellico presentato da Blinken potrebbe rappresentare un punto di partenza, ma sarà l’amministrazione Trump a doverlo implementare. Uno degli aspetti più rilevanti è proprio il coinvolgimento dei Paesi arabi nella gestione della sicurezza e della ricostruzione di Gaza, un tema centrale anche nella visione del centrodestra italiano, che si sposa con la politica degli Accordi di Abramo — siglati proprio durante il primo mandato di Trump.
Formentini ricorda come da a tale processo di stabilizzazione e normalizzazione dipendano anche macro-progetti come Imec, il corridoio commerciale che collegherà India ed Europa tramite il Golfo, su cui l’Italia rivendica un ruolo da hub (a Trieste) e che senza dialogo israelo-saudita manca dello sbocco verso il Mediterraneo.
In quest’ottica, sono da evidenziare le parole di Blinken, che ha dichiarato come la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele sia pronta per essere finalizzata, ma che richiede due condizioni fondamentali: la fine del conflitto a Gaza e un percorso credibile verso la creazione di uno Stato palestinese. Fonti regionali spiegano però che Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti stanno già lavorando a un trattato che potrebbe includere lo sviluppo del nucleare civile saudita, senza però un riconoscimento ufficiale di uno Stato palestinese da parte di Riad.
Resta che la normalizzazione tra Israele e il mondo arabo è un obiettivo centrale, strategico, che passa anche dalla situazione nella Striscia. Tutto è impossibile con i combattimenti in corso, perché producono effetti umanitari devastanti (tra vittime civili e distruzione delle infrastrutture vitali). Dopo tutte le migliaia di morti palestinesi, è ancora possibile un dialogo tra israeliani e palestinesi? Se lo chiedeva Ebtesam Al Ketbi, presidente dell’Emirates Policy Center, il principale think tank emiratini, durante un evento organizzato dalla Fondazione Med-Or, in occasione dell’anniversario del primo anno di guerra. El Ketbi parlava pubblicamente e con franchezza davanti a David Meidan, ex alto dirigente dell’intelligence israeliana e un tempo consigliere governativo.
Gli Emirati Arabi Uniti, parte di maggiore sostanza degli accordi abramitici, giocano un ruolo cruciale in questo contesto. La presenza odierna della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ad Abu Dhabi per la Sustainability Week 2025 è una coincidenza importante. Con Meloni che ribadisce l’impegno dell’Italia nel Piano Mattei, volto a promuovere la cooperazione energetica e lo sviluppo sostenibile con i partner africani e mediorientali, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo non è solo una questione politica, ma anche economica e strategica.
La cooperazione energetica e lo sviluppo delle infrastrutture nella regione dipendono da un quadro stabile e da relazioni solide tra gli attori chiave. Gli Emirati, che hanno già avviato un percorso di integrazione con Israele, possono fungere da modello per altri Paesi della regione. L’attuale tregua, se confermata, sarà dunque solo il primo passo di un processo più lungo e complesso.