La Bce non ha voluto vincolarsi a un predeterminato corso d’azioni, ma ha chiarito che le sue prossime decisioni di politica monetaria dipenderanno di volta in volta dalla valutazione delle prospettive d’inflazione sulla base dei nuovi dati economici e finanziari, delle tendenze sottostanti in termini d’inflazione e dell’impatto che avranno le sue decisioni monetarie. L’analisi di Salvatore Zecchini
Attualmente i mercati finanziari si attendono che nella prossima riunione del 30 gennaio la Bce abbassi di altri 25 punti base i tassi ufficiali di interesse per riportarli verso un livello di “neutralità”. Si prevede nel corso dell’anno una discesa graduale dagli alti livelli che si sono resi necessari per estinguere la fiammata inflazionistica seguita alla pandemia del Covid.
L’aspettativa si fonda principalmente su due assunti. Primo, che l’inflazione si stia avvicinando all’obiettivo dichiarato di stabilità dei prezzi, misurata come una variazione media dei prezzi al consumo attorno al 2% annuo nel medio termine, ovvero nel corso del ciclo economico. Per la banca centrale, la stabilità è raggiunta quando l’inflazione nell’area è “bassa, stabile e prevedibile”. Secondo, che nel ridurre i tassi si tenga conto dell’andamento dell’attività economica europea, attualmente in una fase di stagnazione.
All’indirizzo tendenzialmente meno restrittivo dell’autorità monetaria farebbe da contrappunto quello in senso inverso dei governi dei Paesi membri, che hanno poco margine per sollecitare con le loro politiche di bilancio la ripresa della crescita a causa dell’impegno ad eliminare i disavanzi secondo i termini e i tempi del nuovo Patto di Stabilità.
Entrambe le premesse peccano di eccessivo ottimismo per diversi motivi. In prima linea stanno i dati più recenti che non offrono un quadro di accertata stabilità, anche se considerata in termini di tendenza. Gli ultimi dati relativi allo scorso dicembre mostrano un lieve rialzo dei prezzi per l’intera area, ovvero dal 2,2% del mese precedente al 2,4%. A piccoli passi l’inflazione sta risalendo dal settembre scorso e presenta una certa divergenza tra paesi. In Germania e Spagna è risalita al 2,8%, mentre in Francia ed Italia si mantiene sotto il 2%.
Nel nostro Paese si registra l’andamento mensile più basso (1,4%) dopo quello in Irlanda (1%), con rallentamenti diffusi a gran parte dei comparti di spesa. Anche tra i beni energetici non sono emerse particolari tensioni e la più veloce dinamica dei prezzi dei servizi rispetto a quella dei beni rimane contenuta tra 2,6% e 2,8%. In decelerazione anche l’inflazione di fondo al netto dei beni energetici, che si è attestata all’1,7%. Alla luce di questi dati sarebbe giustificato ridurre i tassi della Bce, ma nella maggiore economia europea e in minor misura in Spagna la spinta inflattiva è ancora fuori obiettivo Bce.
Nell’insieme sono ancora pochi i segnali di una chiara discesa dell’inflazione e sulla sua stabilità pesano alcuni sviluppi di grande portata.
I prezzi petroliferi sono nuovamente in tensione sia per il petrolio che per il gas naturale. Negli ultimi 30 giorni la quotazione del Brent, che fa da indicatore per il comparto, è salita del 7,8%, quella del gas naturale del 13,9%, e il combustibile da riscaldamento è rincarato del 9,1%. I recenti corsi di mercato denunciano una notevole reattività tanto alle recenti restrizioni alla produzione da parte dei maggiori esportatori, che tendono a impedire cadute delle quotazioni, quanto alle manovre degli investitori finanziari che operano sui mercati delle materie prime.
Naturalmente l’andamento della domanda dei Paesi consumatori ha il peso maggiore, in particolare nell’attuale periodo invernale nell’emisfero boreale. Nel valutare la domanda dei maggiori paesi importatori gli operatori di mercato sono molto attenti all’evoluzione delle scorte, al pari che agli sviluppi geopolitici che possono turbare i normali flussi dei traffici petroliferi. Dall’avvio delle sanzioni commerciali alla Russia, l’approvvigionamento petrolifero europeo è divenuto sempre più dipendente da fonti geograficamente distanti e quindi più esposto ai rischi di discontinuità delle forniture.
Di questo canale d’inflazione importata la Bce non può non tener conto a causa delle ripercussioni che ha sulla dinamica dei prezzi interni e di riflesso su un ampio spettro di costi di produzione, incluse le retribuzioni del lavoro.
Altro fattore esterno di pressione sui prezzi è dato in prospettiva dalla politica commerciale verso l’estero della nuova amministrazione americana. Stando alle ultime dichiarazioni del prossimo presidente, ci si attende fra non molto l’erezione di alte barriere tariffarie all’ingresso di prodotti stranieri nel mercato americano, che rappresenta il più ricercato del mondo, dopo quello cinese. Per l’Ue, che nel 2023 ha piazzato in quel mercato il 19,7% delle sue esportazioni, sarebbero prevedibili ritorsioni commerciali di pari entità.
Di riflesso, ne potrebbero derivare spinte sui prezzi interni di quei beni e servizi di provenienza americana particolarmente richiesti in Europa, soprattutto nei comparti innovativi e tecnologici.
Effetti analoghi sarebbero prevedibili nel caso di deprezzamento del cambio dell’euro con il dollaro. Dalla fine del settembre scorso l’euro ha perso il 7,4% del suo valore in dollari con ripercussioni più ampie dei rapporti di scambio tra le due aree. Il dollaro è, in realtà, la valuta in cui sono quotate molte materie prime di cui l’economia italiana e quella europea necessitano. Un cedimento del cambio comporta un aggravio di costi, particolarmente per i prodotti energetici, che influisce sulla dinamica dei prezzi interni.
La forza del dollaro è sostenuta, tra l’altro, da fattori finanziari collegati alle politiche economiche della nuova amministrazione americana. Dalle discussioni in corso al Congresso americano sulle misure di bilancio e nella prospettiva dei tagli di imposta promessi dal nuovo presidente, tagli non accompagnati da consistenti riduzioni di spesa pubblica, i mercati finanziari e gli analisti scontano un ingigantirsi dei disavanzi federali oltre i già alti livelli raggiunti. Ne conseguirebbe una nuova dilatazione del debito federale, che già nello scorso anno fiscale superava il prodotto nazionale, raggiungendo il 123% del Pil.
Di fronte all’indirizzo permissivo della politica di bilancio l’autorità monetaria, la Fed, non resterebbe indifferente proseguendo nell’abbassamento dei tassi d’interesse ufficiali. I timori di una recrudescenza dell’inflazione e di conseguenti spinte salariali la indurrebbero ad adottare un atteggiamento non accomodante nella sua condotta monetaria. Ne conseguirebbe una divergenza più consistente con l’orientamento meno restrittivo della Bce nel contesto europeo di stagnazione economica. Il differenziale dei tassi che si determinerebbe, congiuntamente con i relativamente più favorevoli rendimenti attesi dall’investimento oltreoceano, finirebbero con l’attrarre flussi crescenti di capitali europei verso l’economia americana con effetti di deprezzamento sul cambio dell’euro verso il dollaro. Di queste aspettative si potrebbe rilevare qualche traccia nel recente indebolimento dell’euro.
La Bce non persegue un obiettivo di cambio nel definire la sua politica, ma deve tenerne conto per i riflessi che l’evoluzione dell’euro sui mercati valutari può esercitare sulla formazione dei prezzi all’interno. Altri aspetti hanno un rilievo più importante nelle sue decisioni sui tassi d’interesse. Nell’attuale fase economica la sua strategia di contrasto all’inflazione non deve fronteggiare una situazione di eccesso di domanda come quella che si era determinata alla fine della pandemia con le strozzature dal lato della produzione che avevano generato impennate dei prezzi.
La bassa congiuntura economica attuale le lascia margini per un atteggiamento meno restrittivo e per ridurre i tassi ufficiali. Ma altri aspetti intervengono a moderare questa discesa. In specie, la tendenza verso la stabilità dei prezzi non si è affermata nell’intera area, specialmente nella maggiore economia, dove il ristagno dell’attività economica non si è accompagnato al ritorno della dinamica dei prezzi sui ritmi verso cui la Bce tende. In Germania come in gran parte dell’area monetaria le tensioni sui prezzi appaiono provenire dal lato della dinamica dei costi.
Su quest’ultimo versante i segnali non sono ancora tranquillizzanti. Nello scorso anno i ritmi trimestrali d’incremento del costo del lavoro sono stati variabili attorno a valori tendenziali compresi tra 4% e 5,4%, ovvero ben al di sopra dell’obiettivo d’inflazione della Bce. In Germania, Olanda, Austria si sono toccati picchi superiori al 6%, in Italia ritmi inferiori ma in ascesa nel corso dell’anno dal 2% al 5,4% nel terzo trimestre, invece in Francia un andamento stabile attorno al 3,5%. Non è chiaro se in questi Paesi il recupero del potere d’acquisto dei salari rispetto all’inflazione post-pandemia sia concluso, oppure possa proseguire in questa fase di bassa congiuntura. Occorre attendere altri dati per ridurre le incertezze.
Anche nel caso in cui le tensioni principali avessero origine esterna, un atteggiamento accomodante della politica monetaria non sarebbe giustificato, perché incombe sempre il compito di prevenire effetti secondari di diffusione dei rialzi di prezzo ad ampio raggio e prolungati. D’altronde, la situazione di liquidità del sistema non risulta particolarmente stringente, malgrado la Bce abbia continuato a ridurre il suo attivo, gonfiato dagli straordinari acquisti di titoli durante la recessione economica indotta dalla pandemia. Nel corso dello scorso anno l’attivo di bilancio dell’Eurosistema di banche centrali è stato ridotto dell’8% circa, a 6,357 trilioni, ossia ben sotto al picco di 8,8 trilioni nel giugno del 2022.
Nel continuare a ridurre i tassi ufficiali, la Bce dovrebbe avere un’idea del livello a cui fermarsi, o in altri termini quale distanza avrebbe da coprire rispetto a un livello che assicuri allo stesso tempo stabilità di prezzi e crescita. Stimare quale sia è, peraltro, un esercizio particolarmente arduo e costellato da incertezze sul metodo e sulle determinanti. Applicando la regola dell’economista Taylor, che lo calcola come risultato della combinazione degli scostamenti dell’inflazione e della crescita rispettivamente dal valore obiettivo e dal reddito potenziale, alcuni stimano che il livello obiettivo di breve termine sarebbe compreso in una fascia attorno al 2,5%. In tal caso la distanza del tasso ufficiale attuale dall’obiettivo sarebbe limitata a meno di un punto percentuale.
Sono valutazioni largamente discutibili e sempre esposte a errori. Alla luce delle incertezze sul quadro economico e finanziario, la Bce non ha voluto vincolarsi a un predeterminato corso d’azioni, ma nell’ultimo comunicato ha giustamente chiarito che le sue prossime decisioni di politica monetaria dipenderanno di volta in volta dalla valutazione delle prospettive d’inflazione sulla base dei nuovi dati economici e finanziari, delle tendenze sottostanti in termini d’inflazione e dell’impatto che avranno le sue decisioni monetarie.