È soprattutto il ruolo delle prime donne della politica a caratterizzare i bilanci e le prospettive degli imminenti scenari istituzionali e parlamentari. L’analisi di Gianfranco D’Anna
La politica è donna. Le premesse lasciano intravedere un nuovo anno di continuità e sviluppo delle politiche e delle leadership che hanno caratterizzato il 2024. Ed è soprattutto il netto rafforzamento delle leader di maggioranza e opposizione, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, a qualificare opportunità e prospettive degli imminenti scenari parlamentari.
Mentre, confidando nell’eventuale indulgenza plenaria dell’anno giubilare, i politici tendono a tracciare bilanci autoreferenziali e sono alle prese con cali di consensi e ammutinamenti in progress.
Apertosi con la presidenza italiana del G7, il 2024 si è concluso con il clamoroso ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump e le fiammate di guerra del Medio Oriente, che con un colpo di scena dietro l’altro e il botto finale della repentina cacciata del sanguinario dittatore Bashar al-Assad dalla Siria, ha messo in secondo piano l’Ucraina che tuttavia continua a rispondere colpo su colpo alla Russia di Vladimir Putin. L’inedita crisi parallela dei governi della Francia e della Germania ha incrinato l’egemonia franco tedesca sull’Europa e fatto emergere la leadership internazionale di Meloni, che in Italia monopolizza il governo.
Unico fulcro di indipendenza istituzionale dall’orbita gravitazionale della presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, esercita con saggezza e attenzione il ruolo di garante della Costituzione, con un costante richiamo non solo alla prassi ma anche allo spirito dei principi della democrazia parlamentare e dei valori della Resistenza, dell’antifascismo, del diritto internazionale, del diritto d’asilo e dell’accoglienza.
Gli scenari complessivi sono in continua evoluzione, ma bilanci e prospettive dei protagonisti sono già delineati: a Meloni è costato uno sgarbo istituzionale al presidente degli Stati Uniti in carica, che sarà in Italia dal 9 al 12 gennaio, ma il blitz della visita lampo negli Stati Uniti per incontrare il presidente eletto Donald Trump a Mar-a-Lago ha rappresentato un clamoroso successo internazionale. Il penultimo di una lunga serie. L’apertura di un canale preferenziale a breve e lungo termine con la nuova amministrazione statunitense e il raggiungimento dei presupposti per una si spera quanto mai rapida liberazione della giornalista Cecilia Sala, arrestata in Iran, equivalgono al riconoscimento del ruolo di interlocutrice diretta fra Trump e l’Europa.
Da Biden al tycoon passando da Elon Musk, dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen al segretario generale della Nato Mark Rutte, dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen e dal premier indiano Narendra Modi al presidente argentino Javier Milei, la quintessenza della politique d’abord della presidente del Consiglio si sviluppa, con riconosciuto successo, contemporaneamente sugli scenari internazionali e nazionali. Una politique d’abord che concretizza una sorta d’ubiquità politica, consistente nella capacità della presidente del Consiglio di padroneggiare tutte le tematiche e che all’inizio del terzo anno a Palazzo Chigi le consente di evidenziare i risultati positivi conseguiti e di scaricare i risultati non raggiunti e le mancate riforme sulle défaillance degli alleati di governo, nonché sulle divisioni di un’opposizione frammentata e senza bussola. Un’influenza internazionale, quella di Meloni, in grado di fare decollare il ruolo dell’Italia in Europa e soprattutto nel Mediterraneo, in un momento di assestamento geo politico mondiale che, con le prospettive di pace in Medio Oriente e lo stop all’invasione russa all’Ucraina, che prima o poi Putin sarà costretto ad accettare, avvierà le ricostruzioni e un enorme rilancio economico globale.
Non diverso l’impatto sullo scenario nazionale dove, attaccando su tutti i fronti, senza mai indugiare in difesa, non espungendo né la fiamma né i nostalgici, ma aggiungendo sempre nuovi consensi, la Premier sembra essere riuscita a dividere Partito democratico e Movimento 5 Stelle, cattolici e sinistra e a innescare uno scontro fratricida sul miraggio di un baricentro del centro della politica.
Schlein attraversa il secondo anno di segreteria del Partito democratico superando una dopo l’altra tutte le crisi che l’assediavano, all’interno e all’esterno del partito: dalla sconfitta del centrosinistra allargato in Liguria, addebitabile esclusivamente all’implosione ormai progressiva dei 5 Stelle, alla vittoria alle regionali in Sardegna determinata dalla tenuta del Partito democratico, per concludere con le nette affermazioni alle regionali in Emilia-Romagna e Umbria. Complessivamente negli ultimi 12 mesi, il Partito democratico di Schlein è passato dal 19,3% al 23,5%, con un picco del 42,9% in Emilia-Romagna. Per la serie “gli esami non finiscono mai”, le prospettive per il 2025 della prima segretaria democratica sono però in salita. Al Nazareno sono in fibrillazione infatti tutte le anime della storica sinistra Dc. Oltre che per l’area di Dario Franceschini e il protagonismo di Romano Prodi, c’è attesa per il ritorno di Paolo Gentiloni, ex presidente del Consiglio e commissario europeo all’Economia. Fibrillazioni anticipate dalla nebulosa delle dimissioni dal vertice dell’Agenzia delle Entrate di Ernesto Maria Ruffini, figlio del potente pluriministro dei governi Dc e nipote omonimo e molto somigliante del cardinale, arcivescovo negli anni Sessanta di una Palermo allora capitale della mafia.
Matteo Salvini rischia di dovere affrontare nel nuovo anno ancora più ostacoli di quanti non ne abbia affrontati nei mesi scorsi. Collezionista di insuccessi elettorali, dal crollo dei voti dal 34,33% delle europee del 2019, all’8,9% del 2023, il destino politico del segretario della Lega sembra essere ormai affidato all’esito dell‘autoanalisi dei presidenti di Regione, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana, del leader emergente Massimiliano Romeo e dell’elettorato del Nord che si stanno interrogando su come voltare pagina. Paradossalmente penalizzato dall’assoluzione piena del processo di Palermo per il blocco dei migranti, assoluzione che gli ha fatto perdere l’aurea del martire della giustizia, Salvini si ritrova incastrato fra lo stop alla riforma dell’autonomia, la deriva del generale Roberto Vannacci, le difficoltà della realizzazione del ponte sullo stretto e dall’urgenza di una svolta di partito.
Antonio Tajani, navigatore di lungo corso, è consapevole che anche nel nuovo anno si dovrà confrontare con l’insostituibilità del Cavaliere, le esigenze della famiglia Berlusconi e l’arrembaggio dei leader emergenti di Forza Italia. Incognite che fronteggia prospettando il rischio che la minima variazione può provocare l’implosione del partito e l’inglobamento nelle file di Fratelli d’Italia.
Giuseppe Conte mette d’accordo tutti i sondaggisti, unanimemente concordi nel prevedere un’ulteriore emorragia di voti del Movimento 5 Stelle alle regionali 2025 in Veneto, Campania, Toscana, Puglia, Marche e Valle d’Aosta. Elettoralmente un anno bisestile non è mai stato tanto negativo quanto il 2024 lo è stato per 5 Stelle, ma la tendenza sarebbe destinato a precipitare ancora fino al limite della soglia di sbarramento, sostengono gli esperti di rilevazioni delle intenzioni di voto. Prospettive che dopo le catastrofiche sconfitte alle Europee, in Liguria, Piemonte, Abruzzo, Basilicata, Umbria ed Emilia-Romagna, rendono oltremodo difficoltoso per l’ex presidente del Consiglio per caso porre condizioni al centrosinistra, e in particolare al Partito democratico di Schlein, per un’alleanza elettorale programmatica che inglobi, oltre ai verdi e alla sinistra, anche i centristi di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Dopo aver fatto votare dal partito la cancellazione della figura del garante-fondatore, Giuseppe Conte ha ancora in corso un contenzioso con Beppe Grillo per la titolarità del simbolo del partito, ma ha perso per strada i capipopolo come Luigi Di Maio, Virginia Raggi, Alessandro Di Battista che interpretavano lo spirito originario di un movimento trasformato in partito organico al sistema delle nomine di sottopotere, a cominciare da quelle Rai. Una metamorfosi che lo potrebbe far ritrovare solo con polvere di stelle e senza alcun eco di vaffa. L’ieri è finito, ma il domani rischia di non arrivare.