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Paul Newman, i 100 anni dell’antidivo dagli occhi di ghiaccio e dal cuore d’oro

Cento anni fa nasceva Paul Newman. Forse l’unico attore ad aver dato vita a notevoli personaggi in tutti i generi cinematografici: psicologico, spy, western, commedia, drammatico. Impegnato nel sociale, è stato pilota in gare automobilistiche. Oscar per “Il colore di soldi” (1986, Martin Scorsese)

Saper inventare massime

Hollywood, 1998, festa per i quarant’anni di matrimonio tra Paul Newman e Joanne Wardwood. Giornalista: «A Hollywood è raro che una coppia sia fedele e felice per tanti anni… come ha fatto lei?». Paul Newman: «Quando puoi mangiare tutti i giorni la bistecca perché uscire, perdere tempo, per mangiare un hamburger?».

Dall’infanzia agli esordi

Diretto, arguto, bello, sguardo limpido e trafiggente, agile sul set, capace di vestire i panni di personaggi diversi e lontani nel tempo, di sentirsi a suo agio in ogni genere (spy, western, psicologico, esistenziale, carcerario, commedia, commedia-thriller), Paul Leonard Newman nasce a Cleveland Heights il 26 gennaio 1925. Da Arthur Sigmund Newman e dalla slovacca Theresa Garth, di lingua ungherese. È l’anno in cui usciva Manhattan Transfer di John Dos Passos, Mrs Dalloway, di Virginia Woolf, Il processo di Frank Kafka (morto sei mesi prima), The Gold Rush di Charlie Chaplin, La corazzata Potëmkin di Sergej Mihailovjc Ejzenštejn.

Cresce a Shaker Heights (a quel tempo passò, in dieci anni, da 1700 a 17.000, abitanti: oggi ne conta 26.000), sobborgo orientale di Cleveland (Ohio), dove suo padre aveva messo su un grande emporio di articoli sportivi e sua madre vi lavorava come commessa. Suo zio, Joseph Simon Newman, pare fosse un discreto giornalista e poeta di Cleveland.

Il suo piccolo villaggio era lontano migliaia di miglia dal “ruggito” della America anni Venti delle affascinanti e malavitose Chicago e New York, o, sull’altro oceano, da Cinelandia, fabbrica dei sogni, desiderata dai pubblici di tutto il mondo, ma che nascondeva la sua doppia vita impastata di orge, droghe, e femminicidi per stupro.

Sin da alunno della scuola primaria fu attratto dal teatro: a sei anni Paul è uno dei seguaci di Robin Hood in una produzione scolastica. A nove anni recita in St. George and the Dragon. Una foto d’archivio lo ritrae con quel suo sembiante, seppur fanciullesco, già concentrato, quando sta per chiedere, senza chiedere, o negare, senza negare, qualcosa. Terminata le scuole superiori, nel 1943, presenta domanda per andare in guerra come pilota, ma, affetto da daltonismo, non supera la visita medica. Lo prendono come marconista.

Congedato, è ancora interessato al teatro, ma si deve occupare del negozio di famiglia a causa dell’improvvisa morte del padre (1950). Comunque, riesce a seguire, per dieci mesi, un corso di recitazione presso la Yale University. Successivamente, sistemate le questioni di famiglia, si trasferisce a New York per iscriversi alla Actors Studio.

Intanto nel 1949 sposa Jaquiline E. Witte. Hanno tre figli: Scott Allan, Sudan Kendall, e Stephanie. Nel 1953 prima importane partecipazione in teatro: a Broadway in Picnic.

L’anno dopo, esordisce nel cinema in Silver Chalice (Calice d’argento, 1954, Victor Saville), ma la critica non è entusiasta: «Recita la sua parte con l’entusiasmo di un autista di bus che annuncia le fermate» («The New Yorker»). Noi lo abbiano rivisto (la scenografia dei modellini delle case di Antiochia è davvero risibile), ma Newman mostra già una certa padronanza scenica. Il suo personaggio (Basilio, un incisore), nella scena di gelosia con la mantenuta Elena (Virgina Mayo) del mago Simone (è il giustamente perfido Jack Palance), è preso sì in classici primi piani, ma grazie alle diverse angolazioni lo spettatore coglie sin da questo primo film quel particolare sguardo che trafigge, accanto quella sua mimica seria, che, perfezionate poi, lo renderanno unico. Non va escluso come la calda voce di Stefano Sibaldi, nel doppiaggio, ne migliori la criticata performance dell’originale inglese.

Gli anni Cinquanta: si forgia un grande attore

La sua padronanza sul set guadagna una graduale maturazione nella seconda metà degli anni Cinquanta. Da Somebody Up There Likes Me (Lassù qualcuno mi ama, 1956), nelle mani dell’esperto Robert Wise (fu il montatore di Citizen Kane, 1941, di Orson Welles; regista di forti film di genere nel secondo dopoguerra, quali Nato per uccidere, 1947; Ultimatum alla Terra, 1951; etc.), passando per The Long, Hot Summer (La lunga estate calda, 1958, Martin Ritt), sino a The Lefted Hanged Gun (Furia Selvaggia –Billy Kid, 1958, Arthur Penn). E, soprattutto, con Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, 1958, Richard Brooks). In questo primo gruppo di film si vanno delineando, all’interno di quella tematica comune alle nouvelles vagues mondiali, i tre motivi principali dei suoi personaggi: contestazione della società (come nei personaggi di Marlon Brando e James Dean); messa in discussione “kafkiana” della figura del padre; ricerca di un partner non imposto dalle convenzioni, al di là del ceto sociale.

I registi comprendono le ampie qualità del trentenne attore: ora introspettivo e brillante; ora misteriosamente incartato, psicologicamente accartocciato eppure solare e liscio, tormentato o sereno, ubriaco o sobrio. Ogni regista lo vuole e piovono tutti i personaggi di tutti i generi cinematografici. Sia personaggi “perdenti” che “vincenti” o comunque sereni (v. Missili in giardino, 1958).

Di Lassù qualcuno mi ama, Newman (è il pugile Rocky), storia «accuratamente costruita passando del tempo con lo stesso Graziano e basata sull’intuizione di rendere con i movimenti continui del corpo una forza nervosa che esplode sul ring» (Monica Trecca), ci rimane negli occhi anche la scena finale. Newman siede sulla panchina con la sua ragazza, Norma (Anna Maria Pierangeli), mostra la sua postura naturale, istituzionalizzata all’Actors Studio. Eccola: il busto leggermente piegato in avanti, con lo sguardo che guarda in basso (nel suo cinema, di volta in volta: per timidezza, incertezza, concentrazione, delusione) e poi, improvvisamente, alza il volto e punta Norma. Ora, come un gatto, scatta in piedi, lascia la panchina alle spalle, prende la donna e, via, verso il tribunale a sposarsi.

Nella chiusa di La lunga estate calda, Newman (è il giovane ex vagabondo Ben: “miglior attore” a Cannes 1959), appoggiato al portico della coloniale villa di Will Varner, con le mani sui fianchi, ancora leggermente piegato in avanti con il busto, il sorriso che scintilla sui suoi bianchi denti, il guizzo ironico ma rispettoso dello sguardo, al servizio della sciolta parlantina, dà una “lezione” esistenzialista, anni Cinquanta, al corpulento e tronfio (ma fragile) padrone Will (un monumentale Orson Welles) che lo ha “adottato”: «Lei mi ha imposto prima i cavalli e poi la gente, ma la vita è qualcosa di valore, e va trattata con un certa dose di rispetto». Gli sta spiegando come, mesi prima, quando Will voleva, prepotentemente, a tutti i costi, che Ben e sua figlia Clara si mettessero insieme (era ossessionato dalla mancanza di nipoti), i due giovani non erano pronti (si avevano in antipatia). Ora, dopo la lunga e calda estate, sono accadute molte cose, ed è nato l’amore. I sentimenti hanno bisogno di tempo. Due passi dietro Will c’è appunto Clara (Joanne Woddward: «da qui non mi sposto», ha risposto al padre che intendeva mandarla in casa): ha ascoltato con un sorriso appena accennato e piuttosto compiaciuto: i suoi occhi celesti hanno lo stesso colore di quelli di Ben. Si sposeranno. Newman e Woodward, pochi mesi dopo, lo fecero davvero. Si chiama «cinema di anticipazione»: quando l’arte prevede esattamente il futuro.

Nella sequenza d’apertura di Hot Tin Roof, con Brick (Newman), in forte stato depressivo, brandisce continuamente, dinoccolatamente, un bicchiere di whiskey, appoggiato ad una gruccia (ha una «caviglia fratturata»), nella sua camera. Evita gli sguardi supplichevolmente desiderosi d’amore di sua moglie (la splendida Elizabeth Taylor), punendola (ritiene la sua eccessiva gelosia verso il mio amico Skipper, responsabile della morte di questi) con frasi ironiche e sguardi puntuti, tra desiderio di vendetta misto a quello erotico represso: è uno dei migliori incipit del cinema psicologico-sentimentale della storia del cinema. (I produttori scelsero il Technicolor per esaltare il colore viola degli occhi di Taylor e l’azzurro chiaro, «di ghiaccio», come li definirono i critici, di Newman).

Meno apprezzato dalla critica è la frizzante commedia degli equivoci Rally Round the Flag. Boys! (Missili in giardino, 1958: critica soft – considerato il codice Hays-, contro gli armamenti), in cui le allusioni alla violazione del nono comandamento, sino al probabile adulterio, sono trattate con la delicatezza di una pièce alla Eugène Labiche. Harry (Newman) felicemente sposato con Grace (Joanne Woodward) è delicatamente e insistentemente circuito, senza che la cosa vada in porto, dalla simpatica vicina di casa, Angela (la procace Joan Collins), delusa da un marito esageratamente votato al lavoro. Pur essendo la prima commedia cui Newman era chiamato, egli sfodera mille espressioni strabuzzando gli occhi: per timore, per meraviglia, per pudore, per sedurre senza darne l’impressione, segnatamente nelle situazioni “pruriginose”. Inoltre, ride molto e riesce ad incartare, tramite il suo involontario fascino, chiunque abbia di fronte con la sua avvolgente facondia, donne o militari. Chi non lo ricorda, mentre appeso a un gigante lampadario, come una scimmia, ondeggiare, nel vuoto, nel salone di Angela: entrambi ubriachi e in preda ad un riso inarrestabile, tutta la sera, lì lì sul limite del peccato.

Sempre nel 1958, anno artisticamente intenso di lavoro, Newman, come ricordato, trova il tempo per convolare a seconde nozze, a Las Vegas, con Joanne Woodward. Avranno tre figlie: Elinor Teresa (1959), Melissa Stewart (1961), Claire Livia (1965).

Gli anni Sessanta. Ancora più camaleontico

Newman riceve un oceanico successo all’inizio dei Sessanta con The Hustler (Lo spaccone, 1961), anche questo personaggio (in concorrenza con quelli di Marlon Brando) respira l’aria delle nouvelles vagues europee. Eddy Felson (detto “Eddy lo svelto”: per la sua abilità nel biliardo) è un giovane apparentemente sicuro di sé, spocchioso, non resiste al gioco d’azzardo, è un amante focoso, ma nel suo intimo è un disilluso personaggio esistenzialista alla Jean Paul Sartre. Anche qui Newman è un maestro, per esempio, nella parte del giovane ubriacone (nel pub-sala da gioco dove ci si sfida a biliardo). Eddy, il “giovane che beve” fa da pendant con Brick di La gatta sul tetto che scotta: qui uno spiantato che dorme alla stazione, lì un borghese. Ma osserviamo Newman: lancia la scommessa guardando di traverso, fintamente timoroso, gli sfidanti. Si tocca la punta del naso, come a trovare coraggio (gesto introdotto in Missili in giardino: scena della stazione), inarca un po’ le spalle, poi si sposta intorno al tavolo da biliardo, tra gli astanti, quasi levitando: Newman ha il dono naturale di muoversi sul set con la leggerezza di una foglia che staccatasi dall’albero plana al rallenti nel vuoto. Bastano queste poche mosse del corpo, con quel suo sguardo sempre da sotto in su, nei confronti di chi ha di fronte, uomo o donna, o degli oggetti, o di un bicchiere di whisky: e parte il magnetismo del personaggio che «ci incatena alla poltrona» nel buio della sala (come scriveva, della potenza del cinema, Vladimir Majakovskij).

Arduo ricordare i molti importanti film (tra i 56 film realizzati tra il 1954 e il 2002) di Paul Newman. Ci perdonerà il lettore. L’anno dopo ecco un altro capolavoro che ci dice tutto sulla violenza delle vecchie corrotte generazioni: Sweet Bird of Youth (La dolce ala della giovinezza, 1962, Richard Brooks). Newman impersona (insieme a James Dean) quella gioventù che contesta la famiglia borghese, “fascista” nel modo di pensare e agire, inserita in una logora società illusa dal benessere, che si rifiutava di rinnovarsi, tematica trasversale nel nuovo cinema europeo. Giovani personaggi in crisi esistenziale (À bout de souffle, 1959, J. L. Godard), ragazzi emarginati (Mamma Roma, 1962, Pier Paolo Pasolini), quarantenni intellettuali o borghesi, alla ricerca del senso della vita (La dolce vita, 1960, F. Fellini; Il sorpasso, 1962, M. Monicelli), rampolli borghesi di provincia immersi nell’ipocrisia di un capitalismo senz’anima (I delfini, 1960, Francesco Maselli); ancora, adolescenti senza futuro nel comunismo “realizzato” (L’asso di picche, 1963, Miloš. Forman).

In Sweet Bird of Youth, Newman intensifica la sua abilità caleidoscopica mostrata in La gatta sul tetto che scotta attraverso diversi registri recitativi. Quello lirico, nelle scene sentimentali con Heavenly (Shirley Knight), in flash back. Ma esibisce anche sfumature fintamente (è un debole) spavalde: appena tornato in città, dopo anni, come autista della alcolizzata attrice Del Lago. Ancora, ecco il volto tormentato nell’ingoiare una brutta notizia: quando il dottore suo “amico” (promesso sposo di Heavenly: così ha deciso la borghese famiglia di lei), gli comunica freddamente la morta di sua madre, da mesi. Sino al viso tumefatto, espressionisticamente deformato e sfigurato, dai colpi delle violente percosse subite dal fratello di Heavenly (e amici picchiatori), istigato dal padre padrone della città (l’odioso Tom Finlay – un mirabilmente rude Ed Begley –: deciso a sopprimere il giovane, piuttosto che trovarselo come genero).

Arriva poi il suo primo film “politico” in epoca di guerra fredda: The Prize (Intrigo a Stoccolma, 1963). Qui la sua agilità, lo scrutare ogni movimento con i suoi occhi indagatori e penetranti, gli permettono di salvare la vita di uno scienziato in procinto d’essere rapito e portato in Urss, da spie killer dell’Est, pronte a tutto. Un’autentica regia da action-film, del maestro Mark Robson, con pericoli sventati all’ultimo secondo (la celebre scena, pura suspense, dello sbarco dell’automobile rubata sulla nave, per la fuga), da gareggiare alla pari con Sean Connery (pochi mesi prima aveva inaugurato il genere thriller-action-spy: Dr No – 007. Licenza di uccidere, 1962, Terence Young).

Nel 1964, Martin Ritt prende il tema della verità multipla cara ad Akira Kurosawa (Rashōmon, 1950) e realizza The Outrage (L’oltraggio). Un giovane messicano, Carrasco, viene accusato di stupro ai danni di una donna. È processato ma le prove sono discordi. Newman-Carrasco, con i capelli neri e lisci – scattante, nervoso e saettante come Tajōmaru–, sfodera la sua scala cromatica della mimica: dall’ironico, al sensuale, al pensieroso, al drammatico, all’aggressivo. Quando, per esempio, vede la donna bionda, con il cappellino sulle ventitré, sul calesse, con il suo uomo, che attraversa la boscaglia e già assapora come farla sua, ecco lo zoom di Ritt sul suo sorriso sensuale: semplicemente dirompente! Forti ma non esagerati, i toni arrabbiati durante la sua difesa nel processo intentatogli davanti a decine di campesinos. Un film da rivalutare.

L’interessante esperienza recitativa con Alfred Hitchcock, in Torn Curtain (Il sipario strappato, 1966: due anni prima della invasione della Cecoslovacchia, e dieci anni dopo quella dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica), lo vede alle prese con un protagonista scattante, positivo e vincente, in un action-spy film (uno scienziato americano, oltre cortina per rubare, ad un collega sovietico, con la scusa di un convegno, la formula di nuovi missili-antimissili: ossia il drone di oggi!). Una trama in cui Newman può esercitare le sue qualità di personaggio attento osservatore-investigatore, inaugurate in The Prize: qui deve difendersi dal controspionaggio sovietico, a Berlino Est, pronto a farlo fuori.

In Cool Hand Luke (Nick mano fredda, 1967, Stuart Rosenberg), tra kammerspiel carcerario e aperture su esterni duri (campi di lavoro) e poetici (l’evasione), Newman è Luke Jackson, un recluso per un leggero reato, subito amato dai suoi compagni ristretti. Con una sceneggiatura in cui prevale il volto continuamente sporco, ferito, sanguinante, poiché picchiato più volte dalle guardie (per le tentate fughe), sui rari momenti di serenità (quando, dopo l’evasione, per esempio, viene aiutato dai due bambini neri, di una povera casa di legno campagna, nel tagliare le catene e nel seminare i cani delle guardie che lo inseguono), rimane una delle vette del Newman drammatico.

Gli anni Settanta: tra conferme e dolore

L’inizio del decennio Settanta lo vede impegnato ancora in diversi generi dai quali arricchisce e smeriglia il suo prisma attoriale. Tra i diversi film ricordiamone alcuni. Il western comico-umoristico, The Life and Times of Judge Roy Bean (L’uomo dai sette capestri, 1974, John Huston); il poliziesco: The Mackintosh Man (L’agente speciale Mackintosh, 1973, John Huston); l’omaggio al mondo dei truffatori, anni Venti, tra ironia, umorismo e melodramma, con il capolavoro The Sting (La stangata, 1973, Roy Hill); il catastrofico The Towering Inferno (L’inferno di cristallo, 1974, John Guillermin e Irwin Allen); il comico slapstick Silent Movie (L’ultima follia di Mel Brooks, 1976, Mel Brooks); l’anti-western Buffalo Bill and the Indians or Sitting Bull’s History Lesson (Buffalo Bill e gli indiani, 1976, Robert Altman).

In L’uomo dai sette capestri, i suoi occhi azzurro chiaro si fanno strada tra una cespugliosa barba e un’arruffata capigliatura, per i primi venti minuti con il collo piegato (è scampato, per caso, all’impiccagione), nel dar vita alle azioni surreali di un giudice realmente vissuto che amministrava la giustizia in stile dadà (con gag da cinema muto). In La stangata, per quanto debba cedere molte pose al sodale Red Redford, costruisce la sua parte del truffatore “maestro” in uno stato di trance riflessivo e quasi “filosofico”. In L’ultima follia di Mel Brooks (la sceneggiatura gli va incontro), omaggia comicamente le corse automobilistiche (sua passione nella vita) tramite un inseguimento accelerato tra sedie a rotelle elettrificate: indossa una tuta bianca da pilota, con una gamba ingessata (rimando a La dolce ala della giovinezza). In Buffalo Bill e gli indiani (Orso d’Argento a Berlino) Newman (barba con pizzetto, capelli lunghi) impersona quello che voleva Altman: il cinico, superficiale, mentitore, uomo bianco, qui Buffalo Bill, ormai anziano, che si vende come attore dilettante nelle fiere, per raccontare la falsa storia dei buoni bianchi attaccati e scotennati dai cattivi indiani.

Ma gli anni Settanta, colmi di riconoscimenti dalla critica, sono duri sul versante della vita privata. Suo figlio Scott Allan, aveva iniziato da qualche anno a drogarsi: l’eroina è diffusissima tra i giovani (il film Christine F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, 1981, dal libro Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, 1978, racconta questo dramma di una generazione mondiale). Il giovane morirà, per overdose, nel 1978, a 28 anni.

Tra due secoli: ancora felici invenzioni recitative

Tra gli anni Ottanta e il 2002 Newman recita in sedici film. Notevoli sono: The Verdict (Il verdetto, 1982, Sidney Lumet), storia di un avvocato perdente fotografato con luce filtrata (ossia decolorata) a rendere un volto livido, riflesso opaco di un dramma interiore. Per The Colour of the Money (Il colore dei soldi, 1986, sequel dello Spaccone), Martin Scorsese, che gli fa indossare e gli occhiali blu fumè, a rendere misterioso il suo sguardo indagatore, tutti ricordiamo la chiusa. Eccolo dritto davanti al tavolo da biliardo, vuole sfidare il rivale ex “allievo”, Vincent (Tom Cruise), bravo ma spocchioso, come un tempo era lui (Eddie “lo svelto”), e il frame stop lo sospende con il sorriso ironico in primo piano, curvo sul tappeto verde, mentre colpisce la palla (sentiamo solo il colpo). Una immagine cui è affidata la summa di tutte le espressioni dell’altro Newman: il volitivo, l’ironico, il vincente (gli valse il primo, tardivo, Oscar).

Il volto asciutto e segnato dall’età, ma anche dall’invisibile silente dolore per la perdita di Scott Allan, mai sanato, contribuiscono a disegnare le rughe della sofferenza nel tramonto del capo di una organizzazione di stampo mafioso (taglieggia i gestori di locali). Il raggelare i movimenti del corpo, lo spostare la violenza omicida esclusivamente dentro i bordi della mimica facciale, inclusi i suoi noti “occhi di ghiaccio”, gli permettono l’ultima grande performance (da non protagonista), in Road to Perdition (Era mio padre, 2002, Sam Mendes).

Tanto era camaleontico nell’entrare nei diversi personaggi, studiandoli come su un bancone d’un laboratorio da entomologo, sia dal punto di vista psicologico che sociologico, perfezionando sino all’inverosimile la teoria di Lee Strasberg appresa all’Actors Studio (in diversi copieranno la sua versatilità sul set: Robert De Niro, Harvey Keitel, Dustin Hoffman, Al Pacino, Tom Hanks), tanto curioso per la regia.

La regia

Passato di là dalla macchina, utilizza tutto il bottino artistico sottratto ai grandi registi con cui aveva lavorato sin da giovane, grazie al suo sguardo attento/sornione, inarrestabilmente felino: da Robert Wise a John Huston; da Martin Ritt a Roy Hill, da Richard Brooks ad Alfred Hithcock, da Mel Brooks a Robert Rossen, a Bob Robson.  E quando arriva alla regia stupisce. Andate a vedere come dirige Joanna Woodward (lo ricordiamo: collega e moglie), nei panni d’una vergine trentacinquenne alle prese con il proprio progressivo risveglio sessuale: Rachel, Rachel (La prima volta di Jennifer, 1968).

La “vita buona” di un antidivo filosofico. L’addio e la vedova

Fuori dal set, è stato un semi-professionista pilota automobilistico e ha partecipato a diverse gare e rally, guidando anche una Ferrari. Molto attivo nella beneficenza, fonda nel 1982 la Newman’s Own, specializzata nella produzione di alimenti biologici. Nel 1988 dà vita alla “Hole in The Wall Camps”, in Usa e all’estero, centri per aiutare a curare i minori gravemente malati (in Italia a Limestre, Pistoia).

Per questa sua sensibilità verso il dolore della contemporaneità, per l’uomo gettato nel mondo, come del resto molti dei suoi personaggi, per la cura verso l’altro (in Nick mano fredda, nei panni di un perdente, dovuto a un “destino” avverso, fa di tutto per far sognare i suoi compagni carcerati) lo si potrebbe definire un attore e un uomo heideggeriano. Ciò gli ha consentito di non assumere mai le pose del divo, né all’interno degli studios né fuori, sposando l’umiltà e la modestia nel lavoro, con chiunque glielo proponesse.

Il 31 luglio del 2008, davanti all’esito ineluttabile della malattia, dopo due cicli di chemioterapia, non andati a buon fine, decide di sospendere l’ennesima chemio, aspettando, con il suo sguardo non più di ghiaccio ma d’un sereno azzurro cielo, d’iniziare l’ultima “corsa” verso l’alto, partendo dalla sua casa a Westport (Connecticut), circondato dall’affetto dei suoi. La sua adorata vedova, Joanne, il 27 febbraio 2025 compirà 95 anni.


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