Nelle relazioni con il nuovo presidente Usa, è necessario cercare di andare oltre la superficie dei comportamenti, spesso riflesso delle esigenze comunicative più disparate. E cercare di individuare le logiche più profonde che ne sono all’origine. Da questo punto di vista l’esperienza italiana dovrebbe aiutare. Il commento di Gianfranco Polillo
Un atteggiamento ipercritico nei confronti dell’America di Trump può avere conseguenze gravi. Può rompere il fronte interno dell’Occidente, consentendo ai suoi storici nemici di fare il loro gioco. E un Occidente ancora più debole non farebbe altro che premiare quelle autocrazie che hanno da tempo preso il posto del vecchio imperialismo novecentesco nella tripla accezione: fondamentalista (Iran), militarista (Russia) o semplicemente economico-finanziaria (Cina).
Il rimedio non è ovviamente il ricorso all’autocensura. Ma cercare di andare oltre la superficie dei comportamenti, spesso riflesso delle esigenze comunicative più disparate. E cercare di individuare le logiche più profonde che ne sono all’origine. Da questo punto di vista l’esperienza italiana dovrebbe aiutare. Giorgia Meloni è stata più volte criticata per le prese di posizioni passate. Ma la critica è divenuta ancor più violenta e collerica quando esse sono state abbandonate di fronte alle vere esigenze del momento. Insistere, pertanto, in questa metodologia non può che comportare ulteriori incomprensioni, circa l’effettivo evolversi delle cose.
A Donald Trump è successo qualcosa di analogo. Crocefisso durante la campagna elettorale, per le parole d’ordine adottate, oggi ci si aspetta – e con una certa impazienza – che ad esse si faccia seguito. Dimenticando che in politica tra il dire ed il fare, come recita un vecchio proverbio, c’è di mezzo il mare. Ne deriva che mentre in alcuni casi, come ad esempio per l’immigrazione clandestina, un certo continuismo sarà inevitabile, in molti altri campi le cose cambieranno. Insomma la politica del 47^ presidente americano è ancora un libro con molte pagine bianche da riempire.
Prendiamo, ad esempio, le relazioni con Vladimir Putin. L’esperienza passata indicava l’esistenza di un ottimo rapporto tra i due. Ed ecco allora le supposizioni: porrà fine alla guerra in Ucraina, ma solo sacrificando gli interessi di quel popolo. Poi, però, sono venute le reazioni russe alla minaccia di ulteriori sanzioni, se la carneficina fosse continuata. E Trump per bocca di Aleksander Kots, noto blogger intimo del Cremlino, è divenuto “un teppista politico di quartiere”. Scivolone che ha costretto lo stesso Putin a cercare di rimediare, in un evidente gioco di stop and go tipico di ogni negoziazione.
Nella storia americana vi sono precedenti che dovrebbero essere attentamente presi in considerazione se si vuole in qualche modo scrutare il futuro. Pulsioni isolazioniste sono state più volte ritornanti. Le ultime proprio in concomitanza con la Seconda Guerra mondiale. Con il Congresso americano decisamente ostile ad ogni intervento nel grande ginepraio europeo, e Franklin Delano Roosevelt più possibilista. Anche allora il grido “America First” risuonava lungo le strade di Washington, agitato da uomini come Charles Lindbergh, l’eroe della trasvolata atlantica, che di quel credo ne avevano fatto una bandiera.
Alla fine, tuttavia, gli Stati Uniti furono costretti ad entrare in guerra, dopo il massacro di Pearl Harbour, a distanza di due anni dallo scoppio del conflitto e nel momento in cui la potenza delle forze avverse aveva raggiunto il suo apice. Si fossero decisi prima, accogliendo il grido di aiuto di Winston Churchill, forse le cose sarebbero andate meglio e il tributo di sangue americano sarebbe risultato inferiore. A dimostrazione che non sempre alle intenzioni iniziali si può rimanere fedeli.
Attenti quindi alle facili previsioni sull’evolversi della politica estera, si può essere facilmente smentiti dalla storia. Ma anche per quanto riguarda gli aspetti interni la prudenza nel giudizio è più che necessaria. Le critiche nei confronti del tentativo di mettere in discussione la cultura woke sono state violente. Ma anche giustificate? Che si tratti di principi di libertà che hanno caratterizzato tutto l’Occidente, contro l’oscurantismo autocratico o fondamentalista è fuori discussione. Essa, come l’ecologia, resta pertanto un fiore all’occhiello. Ma ad una condizione: non voler strafare.
Superato quel limite una semplice devianza (nessun giudizio di valore, ma semplice accezione statistica) rischia di trasformarsi in un capovolgimento del “senso comune”. E allora nascono i problemi come quelli legati al rifiuto della maternità surrogata o utero in affitto, che dir si voglia; della preminenza del genitore 1 – genitore 2; dell’ideologia gender da diffondere come si trattasse del nuovo verbo; dell’orgoglio Lgbtq+ da mostrare nelle piazze al di fuori di qualsiasi umana riservatezza. E via dicendo.
Ed è allora che quegli eccessi, come dice Richard Ford, premio Pulitzer, possono alimentare la reazione, colpendo la deriva di quella cultura. Reazione che, nel caso americano, non fu, certo, alimentata da Trump, tutt’altro che morigerato nei costumi. Ma che era preesistente e da questi semplicemente usata per giungere alla vittoria elettorale. Un comportamento riprovevole? Forse da un punto di vista etico. Ma nemmeno questo è certo. Sta di fatto che il principio democratico si fonda sulla rappresentanza. E Trump lo ha solo rispettato.