«Made in Jail» (Matteo Morittu e Gianluca Calabria, 2024) è un documentario che ci racconta come lavorare, vivere e sperare preparandosi sin dalla prigione ad una “seconda vita”. Un inno alla speranza che, nell’anno del Giubileo, piacerebbe a papa Francesco
Nel quartiere Tuscolano (presso la fermata “Numidio”), su via Tuscolana, a Roma, dal 1999, esiste un laboratorio di serigrafia che stampa magliette, felpe e gadget, prodotti regolarmente in vendita al pubblico. Esso è ospitato in un locale «sequestrato alla mafia e intitolato a Massimo Schietroma», un artista di immagini su tessuto, come recita la targa dedicatoria.
Matteo Morittu e Gianluca Calabria, due giovani autori romani, hanno dedicato un fine documentario che racconta la storia di “Made in Jail”, innovativo laboratorio di serigrafia, che nasce, nelle carceri romane come corso dedicato ai reclusi, ben trentacinque anni fa.
Il documentario (83’), omaggiando il laboratorio di cui porta lo stesso nome, Made in Jail, è un’opera coraggiosa, considerando anche la produzione a basso costo, iniziata nel 2019, poi rallentatasi a causa della pandemia e, infine, terminata e presentata alcuni giorni fa a Roma. Un inedito percorso creativo tra detenzione, studio, arte, lavoro e rinascita alla vita sociale. Un viaggio, va detto subito, che parla serenamente allo spettatore del mondo del carcere raccontato con occhi diversi, grazie all’intuizione e alla volontà di uomini che credono in alcuni valori quali l’ascolto dell’altro, il sano lavoro, l’amore di cui parla San Paolo (anche lui carcerato), il reinserimento dopo la pena.
Valori in grado di trasformare un luogo chiuso in un luogo aperto, appunto tramite un laboratorio in cui si possono creare gadget popolari, come una maglietta, una felpa, con un logo e un claim-messaggio. Ciò significa che un giorno, riacquisita la libertà, l’ex detenuto può anche avere la possibilità di lavorare nel settore creativo della moda. Insomma, aver imparato un mestiere, corrispondente a una dignitosa forma di pop art, che non sarebbe spiaciuta ad Andy Warhol.
Toccanti, tra le tante, la testimonianza dell’educatore, il dottor Paolo Maddonni, che ci ricorda, tra l’altro, come nelle case circondariali il problema delle strutture “nuove che spesso soffrono per la manutenzione più di quelle vecchie” e che il numero dei reclusi in Italia è alto, «55.000 sono gli uomini e le donne, 2.500», sottolineando il problema del super affollamento. Tema su cui papa Francesco è tornato il giorno 26 dicembre 2024 aprendo la porta santa, per l’anno giubilare, al carcere di Rebibbia, a Roma. Maddonni racconta anche l’istruttivo incontro con uno studente di una scolaresca in visita al laboratorio di serigrafia in carcere. Il giovane chiedendo come fosse la vita del detenuto sembrava piacevolmente sorpreso della possibilità del recluso di poter giocare a calcio nel campetto, di diplomarsi studiando, dei pasti assicurati, dell’uso della palestra. Quasi che in fondo «si potesse delinquere se poi si era trattati così». Ma quando il ragazzo ha chiesto dell’uso del cellulare e di internet, sentendosi rispondere da Maddonni che al recluso sono vietati, e ha disposizione «una sola chiamata a settimana», allora, improvvisamente il ragazzo si è fatto pensieroso e ha commentato, sbalordito, «ma allora è un carcere vero!».
«Quando delinqui – chiosa un detenuto del corso di serigrafia- non rifletti su quelle persone alle quali, quando eri libero, dedicavi poco tempo. Io ho perso la crescita dei miei figli, dalle elementari alle superiori. Questo è il danno che dopo realizzi di aver fatto a te e agli altri. Ora sto apprendendo la serigrafia e quando uscirò vorrò vivere secondo la legge».
Silvio Palermo, un ex detenuto per motivi politici, poi dissociatosi dalla lotta armata, agli inizi degli anni Ottanta, è colui che è stata l’anima della invenzione del laboratorio di serigrafia all’interno del carcere, una volta uscito, tornandoci come formatore. Con un suo amico artista, appunto Massimo Schietroma, con cui diede vita per l’appunto a “Made in Jail”, nel 1999.
«Quando esci dal carcere –sottolinea Palermo- è difficile trovare lavoro, re-inserirsi nella società. Hai, come dicono tutti, La fedina penale “sporca”. Sei stato in un luogo che è il carcere. E il carcere è un orologio senza lancette. Per questo ho pensato, insieme a Massimo, di creare un laboratorio di serigrafia per aiutare chi è dentro a sperare in un futuro migliore».
«Purtroppo ci sono detenuti con pene lunghe che non sono interessati a un progetto di reinserimento, ma noi lavoriamo incoraggiando coloro che credono al recupero e sono tanti», continua Maddoni.
«Quando ho iniziato a lavorare come direttore, noi tutti giovani dirigenti responsabili, pensavamo a una riforma della detenzione, che si attendeva da anni, in direzione del reinserimento – spiega Giuseppe Makovec, ex direttore di Istituti penitenziari -. Poi si fermò tutto, a causa del terrorismo e delle leggi speciali… Il progetto di riforma è stato ripreso dopo… Con la semilibertà, il lavoro anche fuori dalle case di reclusione molto è cambiato in positivo… E il progetto di “Made in Jail” è stato un sogno divenuto realtà, grazie all’abnegazione di Silvio Palermo… L’altro mio grande sogno è una società con poche persone nelle carceri…fino a chiuderle tutte».
Made in Jail è un documentario che cattura l’attenzione, ti sospende il respiro, per le singolari testimonianze dei formatori, di detenuti e di ex detenuti: questi ultimi tornarti a vivere “una seconda vita”, come si dice in questi casi.
La camera attenta di Calabria è ora sui primi piani dei detenuti, ora sui loghi e sugli “slogan” delle t-shirt, ora sulle macchine che lavorano per la serigrafia, adesso accarezza il dettaglio: i dettagli formano il tutto, pare ci dicano gli autori. La regia di Morittu alterna interni ma anche ariosi esterni: abbiamo Piazza Navona, con il gazebo per la vendita delle t-shirt per autofinanziarsi; e poi due stupende inquadrature sul mare di Civitavecchia (il mare simbolo della libertà in I quattrocento colpi di François Truffaut): esterni chiamati, simbolicamente, ad anticipare l’agognato ingresso nella seconda vita.
Made in Jail di Morittu e Calabria è un respiro realistico alla Cartier-Bresson, una collana di storie di uomini che hanno sbagliato ma che umilmente domandano perdono a sé stessi, ai propri cari, agli amici. Sono uomini che hanno studiato, hanno lavorato, si sono specializzati. Ora chiedono alla società di non essere murati vivi quando usciranno: dallo stigma, dalla paura e dall’indifferenza verso l’ex carcerato.
E tutto ciò arriva allo spettatore grazie a un racconto pervaso in ogni inquadratura dall’anelito alla speranza. Un film che, nell’anno del Giubileo dedicato alla speranza, piacerebbe a papa Francesco.