Non tutto quanto è stato annunciato dal nuovo presidente genera rischi e sfide per i governi europei. La nuova collaborazione che si instaurerà tra le due sponde dell’Atlantico può produrre benefici per entrambi. Ne è esempio l’atteggiamento verso la Cina. Un fronte comune America-Europa potrebbe giovare a raggiungere accordi soddisfacenti fra le tre aree. In ogni caso, il secondo mandato di Trump segna un punto di svolta nelle relazioni tra le due aree e globalmente nell’ordine internazionale dei rapporti tra grandi potenze. L’analisi di Salvatore Zecchini
L’avvio della seconda presidenza di Trump avviene nel tripudio dei suoi incrollabili sostenitori e tra le inquietudini tanto degli oppositori americani, quanto dei Paesi alleati. Per i Paesi avversari è l’occasione per trarre qualche giustificazione al loro regime autoritario di fronte all’opinione pubblica internazionale e anche per impegnarsi nell’accrescere la sfida alle tendenze egemoniche degli Usa.
L’egemonia americana era già in arretramento dagli anni Ottanta del secolo scorso in parallelo con l’avanzare della globalizzazione economica che permetteva ai Paesi emergenti, segnatamente Cina, India e Russia, di disporre di crescenti risorse per i loro disegni di sviluppo e potenza.
Per i sostenitori del nuovo presidente, sempre pronti ad appoggiarlo non importa quali illegalità commettesse, è l’occasione per la riaffermazione della potenza americana nel ridefinire regole e meccanismi di un nuovo ordine internazionale che si sostituisca a quelli emersi dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla successiva ondata di globalizzazione. Sul piano interno si vuole il ritorno a una forma di capitalismo meno incline a sottostare a vincoli per la protezione sociale e meno proteso verso politiche di salvaguardia dell’ambiente e di contrasto al cambiamento climatico. L’eliminazione di regolamentazioni, vincoli e gravami sugli investitori fa parte della narrativa di Trump insieme a interventi per far lievitare le retribuzioni dei lavoratori. Che riesca a realizzare questi intenti appare a molti analisti alquanto dubbio, ma bisogna mettere in conto che dietro le sue appariscenti dichiarazioni infarcite di false verità vi è un notevole pragmatismo nell’accettare compromessi che salvino le apparenze.
Gli oppositori americani vedono nelle sue azioni passate e nella futura agenda un attacco al sistema liberale tracciato nella Costituzione e lo spostamento verso un nazionalismo egoistico che tende soprattutto a fare gli interessi dell’America da una posizione di forza. Sul primo punto, la denuncia più esplicita si trova nelle parole del Presidente uscente nel rivolgersi ultimamente al popolo americano. Definisce Trump una “minaccia esistenziale per la nazione” e mette in guardia nei confronti della formazione in corso di una oligarchia, in cui “estrema ricchezza, potere e influenza” sono concentrati nelle mani di pochi e “minacciano la democrazia, i diritti fondamentali e le libertà, nonché la possibilità data a tutti di andare avanti”.
A parte i toni aspri di questa denuncia dopo una turbolenta campagna presidenziale, la testimonianza di questa realtà sta, tra l’altro, nel comportamento di Trump nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2001 e dai risultati dell’inchiesta sulla sua presidenza condensati nel Rapporto dello Special Counsel, Jack Smith, designato dal ministero della Giustizia. Per gli altri Paesi la rielezione dell’autore di tali azioni alla testa del Paese leader della democrazia occidentale offre un esempio infausto su come possa essere condotto un sistema politico pur essendo giudicato democratico-liberale. Nel quadro dell’Ue, pertanto, leadership autoritarie, come si è visto in Ungheria, Polonia e Slovacchia, potrebbero servirsi di questo esempio per rivendicare la patente di regime democratico all’occidentale. E non è da escludere il rischio di un contagio politico in Europa in un anno di cruciali elezioni in Germania e Francia, Paesi che vedono la rapida ascesa dell’estrema destra.
Anche nel caso americano, l’ascesa al potere è avvenuta attraverso regolari elezioni e la sua concentrazione nelle mani del solo Presidente è rafforzata dalla maggioranza ottenuta dal suo partito in entrambe le Camere del Congresso. Il sistema di “controlli e bilanciamenti” del potere presidenziale previsto dalla Costituzione americana, pertanto, sembra venuto meno, almeno temporaneamente. A questo risultato concorrono, altresì, la composizione della Corte Suprema, che ha una maggioranza di giudici nominati da Trump, e le sue nomine in una serie di Autorità di settore, enti pubblici a tutela della concorrenza e della stabilità dei mercati finanziari, ed organi giudicanti.
Le inquietudini tra i Paesi dell’Ue derivano, ancor più, dall’insieme di misure preannunciate da Trump in campo economico e nelle relazioni internazionali. La sua agenda è incentrata sui temi della protezione della manifattura americana e più in generale degli interessi delle imprese, frenare l’immigrazione illegale, deregolamentare e ridurre la burocrazia, e potenziare sicurezza e difesa. Nei rapporti commerciali con l’estero ha insistito sull’imporre sin dall’inizio della sua presidenza alte tariffe doganali sulle importazioni da tutti i Paesi, in particolare verso la Cina, che rappresenta il principale fornitore di beni e servizi. Al multilateralismo del sistema globale governato dal WTO sostituisce il suo bilateralismo.
Il suo protezionismo commerciale investe anche l’Europa e i due Paesi nord-americani con cui gli Usa hanno un accordo commerciale per un’area di libero scambio. In breve, intende ridefinire i rapporti commerciali con i vari paesi e procedere attraverso negoziati bilaterali, in cui può far valere l’importanza del mercato americano e la forza della sua economia per ottenere contropartite o commerciali, o in altri campi rilevanti per la sua politica.
Dall’Europa si attende, ad esempio, un grande incremento degli acquisti di gas naturale. Negoziando su base bilaterale può ottenere contropartite differenti da ciascuno dei membri dell’Ue, generando disparità e gettando i semi della disgregazione della convergenza dei Paesi europei su posizioni comuni e condivise. In realtà, Trump non ha mai manifestato grande entusiasmo per l’avanzamento dell’Unione tra Paesi europei, probabilmente perché vi vede un potenziale competitore che persegue interessi alternativi a quelli americani. L’Ue, invece, crede e professa la libertà dei commerci, che contrasta con la nuova ventata di protezionismo americano. Analogamente ha fiducia nelle regole del WTO come architettura del sistema degli scambi commerciali internazionali, mentre il governo americano mostra insofferenza per questi vincoli e ne critica l’inefficienza nel garantire il giusto scambio.
La solidità del consenso tra governi europei sarà, pertanto, messa alla prova ben presto, quando saranno note le nuove barriere doganali che Trump eleverà e come saranno ripartite tra prodotti. La penalizzazione commerciale può variare tra Paesi europei a seconda della diversa composizione merceologica del loro export. Su quale posizione si raggiungerà il consenso tra i Paesi su come rispondere alle misure americane? Le opzioni sono diverse e gli interessi nazionali non del tutto convergenti. Per esempio, vi saranno ritorsioni commerciali o no, contropartite economiche o di altro genere? Che impatto avranno nelle diverse economie dell’Unione, che hanno una differente dipendenza dal mercato americano?
Con la guerra in Ucraina e la rinnovata aggressività della Russia nello scacchiere europeo, la posizione degli europei attualmente appare relativamente debole nel dialogo con gli americani, perché hanno bisogno del loro aiuto per la loro difesa e per sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina. Alcuni membri sono esposti più degli altri alla minaccia russa, altri devono anche fronteggiare l’avanzata dei prodotti cinesi sui loro mercati spinta dagli aiuti statali. Alcuni membri, inoltre, mostrano simpatie verso le posizioni dei russi, in parte perché sono stati orientati verso quel mercato dopo decenni di partecipazione al Comecon.
Ogni divergenza intra-europea di interessi e di posizioni negoziali avvantaggia la posizione americana, al punto che sarà ben difficile attendersi una forte risposta europea. Le questioni economiche si intrecciano con quelle della sicurezza e difesa che negli ultimi anni hanno assunto preminenza. L’Ue è da tempo sotto attacchi subdoli di matrice russa alle sue linee di telecomunicazione e ai siti informatici, e sta fronteggiando da tempo campagne di disinformazione lanciate dalla Russia per alimentare il dissenso politico all’interno dei Paesi dell’Unione. La collaborazione con gli americani si rivela, quindi, sempre più essenziale per difendersi efficacemente sul duplice piano della sicurezza interna e della potenziale aggressività di potenze straniere.
L’importanza per l’Ue di questa collaborazione si manifesta anche su altri piani, in campo digitale, nelle tecnologie di punta, nell’energia e nel mostrare convergenza nei rapporti economici con la Cina ed altre importanti aree economiche. Il primeggiare degli Usa in campi tecnologici e della difesa da cui dipende l’Europa, comporta condizionamenti per gli europei nella loro libertà e autonomia di azione.
Trump si è presentato come principale negoziatore con i russi in quanto si ritiene capace di far giungere le parti a un accordo per porre fine alla guerra in Ucraina. Per gli europei è un segnale positivo in considerazione dei migliori rapporti che ha con Putin, ma al tempo stesso negativo se Trump non tenesse conto degli interessi europei a salvaguardare l’Ucraina e a consentirle di entrare nell’Ue. Per altro verso, se avesse successo in un’impresa in cui gli europei hanno finora fallito, mostrerebbe lo scarso peso degli europei nei rapporti con le maggiori potenze.
Non è una realtà sorprendente se si considera che la stessa difesa dell’Europa poggia sulla potenza militare degli Usa e sull’alleanza nel quadro della Nato. La solidità di questa alleanza, tuttavia, è stata messa in forse dallo stesso Trump, quando ha condizionato il sostegno americano agli alleati subordinandolo al potenziamento dei loro rispettivi apparati militari attraverso considerevoli nuovi investimenti. Per Paesi come l’Italia e la Germania, che attualmente destinano alla difesa meno dell’1,5% del Pil, raggiungere in pochi anni il traguardo indicato da Trump (3%-5%) implicherebbe un drastico riorientamento della spesa pubblica che non appare realizzabile. Sarebbe, invece, possibile un negoziato per un accordo realistico, che soddisfi entrambe le esigenze di riequilibrare l’onere della difesa tra Ue e Usa e di non sconvolgere i bilanci pubblici.
Anche sul piano economico le politiche del nuovo presidente generano rischi e maggiori condizionamenti per l’Europa. L’annunciata riduzione del prelievo fiscale sui redditi d’impresa e sui redditi da capitale espone i Paesi europei a un nuovo rischio di vedere flussi crescenti del suo risparmio indirizzarsi verso investimenti nell’economia americana. Un analogo deflusso di investimenti si avrebbe se nuove barriere tariffarie rendessero più conveniente per le imprese europee produrre negli Usa piuttosto che esportare verso quel mercato. Parimenti, una nuova ondata di incentivi ed agevolazioni americane per categorie cruciali di investimenti, come avvenuto con l’Inflation Reduction Act del Presidente Biden, costringerebbe gli europei a seguire l’indirizzo degli americani per non essere spiazzati dalle fughe di capitali oltreoceano.
Le finanze pubbliche di entrambe le aree non hanno sufficiente spazio per maggiori spese a causa degli attuali rilevanti deficit, ma la maggiore reattività dell’economia americana a questi stimoli tenderebbe ad approfondire il divario di crescita tra le due aree. La forza di attrazione dell’America sui capitali europei si accrescerebbe anche nel caso in cui le politiche di bilancio producessero maggiori deficit, a cui seguirebbero relativamente alti tassi d’interesse rispetto a quelli europei.
Sotto il profilo macroeconomico l’impatto insidioso degli interventi della nuova amministrazione può altresì derivare dall’annunciata deregolamentazione dei mercati finanziari e monetari. Le regole più stringenti introdotte all’indomani della crisi finanziaria del 2008-2009 verrebbero allentate in contrasto con l’atteggiamento meno accomodante dei regolatori europei. Si aprirebbe, quindi, lo spazio per un tipo di arbitraggio regolatorio tra aree a tutto svantaggio di quella europea. Ad esempio, l’ultima versione delle regole di Basilea III, che è da tempo in sospeso perché attende l’approvazione del Congresso americano, avrebbe ben poche possibilità di essere applicata negli USA in contrasto con la volontà degli europei di introdurle per conferire più stabilità al sistema in una fase di grande innovazione finanziaria.
Non tutto quanto è stato annunciato dal nuovo Presidente genera rischi e sfide per i governi europei. La nuova collaborazione che si instaurerà tra le due sponde dell’Atlantico può produrre benefici per entrambi. Ne è esempio l’atteggiamento verso la Cina e lo sconvolgimento che le sue politiche commerciali e le esportazioni sovvenzionate hanno prodotto nei mercati europei ed americani. Un fronte comune America-Europa potrebbe giovare a raggiungere accordi soddisfacenti fra le tre aree.
In ogni caso, la seconda presidenza di Trump segna un punto di svolta nelle relazioni tra le due aree e globalmente nell’ordine internazionale dei rapporti tra grandi potenze. Si potrebbe sostenere, come fanno alcuni analisti, di trovarsi di fronte a un cambiamento di regime, una modifica che investe ampi campi dei rapporti tra Paesi, nei modi in cui avviene, nei mezzi usati dalle maggiori potenze e nei tempi di attuazione, che risultano accelerati, complice l’incalzante avanzare delle tecnologie. Avverrebbe anche all’interno del Mondo Occidentale liberale in campi quali il rispetto delle regole concordate, il bilateralismo a fronte del multilateralismo, il peso della forza economica e militare nei negoziati, e il passaggio dalla paziente negoziazione di accordi all’agire prima rapidamente e negoziare dopo.
Ogni cambiamento di regime ha comportato grandi rischi e grandi incertezze su quali saranno il suo svolgimento e l’esito finale. E ben difficilmente il processo in corso farà eccezione all’esperienza passata.