“Tofu in Japan. La ricetta segreta del signor Takano” (2024) di Mihara Mitsuhiro, premiato al Far East Film Festival, è una storia delicata, poetica e umoristica, tra Ozu e Truffaut, sul cibo, l’amore e l’amicizia. Un racconto né intimista né minimalista, perfetto nel mettere insieme le piccole “cose” necessarie per una vita serena
Vedendo Tofu in Japan. La ricetta segreta del signor Takano (2024) di Mihara Mitsuhiro (quest’anno ha compiuto sessanta anni), mi sono venuti i versi di Mario Novaro, Vincenzo Cardarelli, Giorgio Caproni, Diego Valeri, Mario Verdone. Quando fissano un tramonto, un rametto di ciliegio in fiore, le foglie gialle in autunno, una partita a carte tra anziani, due adulti su un muretto con gli occhi sull’orizzonte o su uno skyline di palazzine e ciminiere, un treno in campo lungo che attraversa, tutto solitario e serio, una cittadina di provincia. Insomma, il passare del tempo nei piccoli centri, protetti dai colori della campagna o limitati dal blu increspato del mare, tra speranza e malinconia, abitati da quegli uomini che sanno invecchiare, col passo incerto, ma con il sorriso celato e l’immortale fanciullino dentro. Mi è tornato in mente, anche, Il mio amico giardiniere (2007, Jean Becker), con quella poetica delle piccole cose, degli ortaggi che ci parlano, del tempo che passa, della, eventuale, malattia da affrontare con serenità.
Questa associazioni libere che il film di Mitsuhiro ha prodotto nella mia soffitta memoriale sono dovute ad una storia piccola, minima: ma, si badi, né intimista né minimalista. Un minigruppo di famiglia, due persone, in interno di laboratorio culinario giapponese, alternato ad ariosi esterni dalle campiture seriamente impressioniste.
È la storia quotidiana di un uomo di circa ottanta anni, Tatsuo Takano (Tatsuya Fuji: noi lo ricordiamo da energico giovane in Ecco l’impero dei sensi, di Naghisa Oshima), seriamente impegnato nel suo negozietto, in una cittadina della provincia di Hiroshima, a produrre il tofu, seguendo una antica ricetta di famiglia. Lo vende poi al supermercato locale e ai singoli clienti. È vedovo. L’aiuta, nel lavoro, la bella figlia Haru (Kumiko Aso: sorride anche con gli occhi e la sua fotogenia ne esce moltiplicata), sui quaranta, single.
Ogni mattina all’alba Tatsuo si reca al lavoro con la sua biciletta. È geloso della ricetta del suo tafu, che nessuno conosce. Non pensa che sia anziano. Il lavoro lo rende sereno. Poi arriva, insieme a una visita medica, un problema cardiologico. Va affrontato un intervento al più presto, “potrebbero complicarsi le cose”, le comunica con gran tatto la dottoressa cardiologa.
Tatsuo non dice niente ad Haru, che capta qualche silenzio di troppo mentre lavorano o nella pausa pranzo, sempre nel piccolo laboratorio. Egli realizza che gli potrebbe succedere qualcosa di serio. Del resto rimanda l’intervento per timore. Dunque, dice a sé stesso, bisogna trovare un marito per Haru. E non è facile. Ella ha un carattere forte, dietro la sua squisita gentilezza. Ha subito un divorzio anni fa, è tornata a casa, ed è felice così.
Come in un film di Marcel Pagnol, i quattro amici di Tatsuo, che si incontrano normalmente nella barberia dell’amico barbiere, si rendono disponibili ad aiutare il loro amico nel “trovare” uno scapolo per Haru. Vi sarà una esilarante selezione di candidati, rintracciati in tutta la provincia di Hiroshima, con foto appiccicate su un cartellone. Seguiranno le convocazioni e le relative interviste ospitate nel piccolo pub di un altro amico, per l’occasione chiuso ai clienti…La scelta cadrà su un bel giovane che ama la cucina, uno chef, specializzatosi in Italia. I due giovani vengono fatti incontrare per caso, e pare che ogni cosa fili liscia. Ma Haru, all’insaputa di tutti, sceglierà diversamente.
Parallelamente scorre il segreto dramma di Takano, che s’ostina a non rivelare alla figlia la questione dell’operazione. Il caso vuole che l’uomo, al supermercato, venga riconosciuto da una gentile donna, Fumie (Akama Mariko: eterea e concreta allo stesso tempo), single, matura, incontrata per caso al policlinico. Nasce una amicizia e qualcosa di più. I due si vedono e passeggiano; il gentile e chiuso Takano pare sia sensibile alla poesia che avvolge i gesti e i sorrisi di Fumie. Un giorno lei lo chiama al telefono del laboratorio (Takano non ha un cellulare), per “sentire la tua voce”. Fumie non dice che è in ospedale, sta per subire un intervento al cuore. Takano, attraverso il telefono, sente la voce di qualcuno che annuncia il turno della paziente dall’altoparlante della corsia e capisce. Anche Haru ha sentito. Tutti e due, padre e figlia, corrono all’ospedale.
Mihara Mitsuhiro spiazza lo spettatore con svolte inattese. Haru sceglierà un uomo non bello né affasciante, ma dal grande cuore, di cui si è innamorata; l’operazione di Takano è rimandata; nella sua vita è arrivata, inattesa, Fumie. Tofu in Japan, intreccia diversi stili: la commedia, il film sentimentale, il melodramma, il documentario (seguiamo da vicino come si impasta il tofu), persino una cit-azione da action film: quando Takano si difende dalla aggressione fisica di un volgare nipote di Fumie interessato solo alla eredità (in caso di morte) della “zietta”.
La cittadina di Onimichi (prefettura di Hiroshima), è fotografata (da Suzuki Shuichiro: attento nel catturare i colori che cambiano con le stagioni) con dei campi lunghi, colta, appena appena, affacciata sull’azzurro del mare. Mitsuhiro incastona rapidi scorci della cittadina con i rumori della vita quotidiana (per ben due volte dei bambini corrono verso la scuola o tornano a casa, con le cartelle sulle spalle: come in L’argent de poche di François Truffaut). La regia volutamente classica e contenuta nei movimenti, si apre a due lunghi back-travelling su Tatsuo e Haru mentre tornano a casa, dal ristorante, e la loro chiacchierata li avvicina ancor di più. Oppure quando la camera segue per un tratto Fumie, su per il vicolo che la porta a casa, nella parte alta della vecchia Onimichi, sul mare. Per dirci della sua solitudine.
Nella storia scritta da Mitsuhiro, è innegabile l’influenza diretta o meno del cinema di Yasujiro Ozu. Sia nello stile, ad esempio, l’alternare gli esterni sulla natura e la città a essenziali interni (la barberia, il laboratorio, il pub; la casa di Fumie), come nei temi: il rapporto tra padre e figlia, legati da un forte sentimento, ma destinati alla separazione, rimanda a Tarda primavera (1949). La delicatezza, la riservatezza, il rispetto delle autonomie personali all’interno della famiglia giapponese sono rese da Mitsuhiro con un uso “timido” della camera, che mai insiste sui primissimi piani. Anche la direzione degli attori deve qualcosa al cinema di Ozu. Sono chiamati a lavorare con le variegate espressioni del volto: corrucciato e poi aperto al sorriso accennato in Tatsuo; quasi sempre con il sorriso e poi improvvisamente rannuvolati i volti lunari di Haru e Fumie. Mentre ai personaggi secondari, ma necessari, è chiesta il medesimo tono da commedia, a tratti persino comico, come nel caso del barbiere autore di gag.
La chiusa del film, toccante, ci offre Haru e Tatsuo al centro del piccolo laboratorio, in un momento di pausa. Haru si è maritata ma ancora aiuta il padre. Sono ripresi in piano americano. La figlia abbraccia il padre, un po’ di sbieco, poggiando la testa sul petto di Tatsuo, pudicamente. E gli dice “grazie per esser stato mio padre” e lui, commosso, risponde, “grazie a te”.
Perché solo verso al fine del film lo spettatore ha saputo del passato di Tatsuo. Egli aveva sposato una donna vedova, che con sé aveva portato una figlia. Dopo le esplosioni delle atomiche del 1945, e per diversi anni, molti giapponesi morivano per sopravvenute malattie, e ci si aiutava anche sposando una vedova con figli. Questo aveva fatto lo sconosciuto Tatsuo Takano (Tatsuya Fuji è diretto magistralmente: recita con l’intensità di un personaggio di Ozu). Il più bravo in tutto il Giappone a creare un tofu dal sapore speciale: “morbido e dolce, ma anche con un retrogusto amaro”. Come accade talvolta con la vita.