Lo scorso anno gli investimenti esteri diretti in Cina sono crollati di quasi 170 miliardi, facendo registrare il peggior esodo dal 1990 ad oggi. E con la nuova guerra commerciale le cose potrebbero andare anche peggio
Doveva essere l’anno della rinascita, del ritorno alla fiducia, della Cina di nuovo al centro del villaggio. E invece no, ventiquattro mesi di tentativi impacciati, quando non maldestri, non sono riusciti a convincere i mercati che sì, investire sul Dragone ha ancora un senso. Da quando la pandemia è ufficialmente finita, il partito ce l’ha messa tutta per provare a risollevare la seconda economia globale dal pantano in cui è finita, dopo dieci anni di crisi immobiliare. Un taglio dei tassi per rimettere in sesto i consumi, una valanga di prestiti alle imprese del mattone (ultimo caso è Vanke, secondo solo a Evergrande e collassato sotto il peso di 50 miliardi di deficit) e svariate operazioni di consolidamento bancario.
Eppure, qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare. Lo dicono i numeri. Lo scorso anno la Cina ha assistito a un vero e proprio esodo di capitali, sotto forma di deflussi record di investimenti diretti esteri. Si tratta, per ogni economia di mercato o vagamente tale, di una delle poste di bilancio più importanti, perché da una parte dà la cifra della fiducia verso quell’economia, dall’altra l’arrivo di capitali vuol dire creazione di valore e gettito fiscale. Per Pechino, niente di tutto questo. Gli investimenti diretti esteri, secondo i calcoli di Bloomberg, sono scesi di 168 miliardi, facendo segnare la più consistente fuga di capitali dal 1990 ad oggi.
La sensazione è quella di una tempesta perfetta. Da una parte le grandi società straniere hanno distratto i propri investimenti, portandoli via dalla Cina, dall’altra molte imprese cinesi hanno deciso di dirottare i propri capitali altrove. I soli gruppi esteri hanno puntato sul Dragone solo 4,5 miliardi di investimenti, il dato più basso dal 1992. C’è un altro dato che fa riflettere, citato dalla stessa agenzia americana e riconducibile ai dati dell’Onu. Sempre lo scorso anno gli investimenti diretti in Cina sono crollati del 30%, contro una media globale dell’8%. Le cose in futuro potrebbero andare anche peggio, visto che i dati poc’anzi menzionati non scontano le nuove tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, venutesi a verificare all’indomani del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Di sicuro in Cina le cose continuano ad andare male, anche sul versante corporate. Come accennato, Vanke, colosso del mattone molto simile per dimensioni ad Evergrande, è un agonia. E ancora una volta sarà il governo a dover mettere mano al portafoglio, con un piano di sostegno che mira a colmare un significativo deficit di finanziamento di 50 miliardi di yuan che China Vanke deve affrontare quest’anno. La proposta include l’allocazione di 20 miliardi di yuan dalle quote di obbligazioni governative locali speciali per l’acquisto di proprietà invendute e terreni vacanti. Oltre a questo supporto diretto, Vanke e le sue affiliate dovrebbero ricevere accesso ad altri canali di finanziamento, come nuove emissioni obbligazionarie e prestiti bancari, per facilitare ulteriormente il rimborso del debito.