Negli ultimi mesi, i servizi segreti sono tornati al centro delle polemiche. A finire nel mirino, da ultimo, è stato l’Autorità delegata, Alfredo Mantovano. Ma come davvero stanno le cose?
Si torna a parlare di servizi segreti sui media, ma in chiave negativa, con l’espressione “servizi deviati” che riecheggia nel dibattito. E non è una buona notizia.
Sul banco degli imputati è finito il sottosegretario Alfredo Mantovano, Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, al centro di un duro articolo del quotidiano Domani, che definisce un “disastro” la sua gestione dell’intelligence, citando il caso dello spyware Graphite di Paragon, la vicenda Al Masri e le verifiche su Gaetano Caputi, capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio.
Il dibattito è sempre benvenuto in democrazia: nessuno scandalo, anzi. Ma come stanno realmente le cose? Il governo, in questo caso, è vittima o carnefice rispetto ai casi emersi recentemente sui media?
A ben vedere, anche i più critici manifestano riserve sulla “gestione” dei singoli casi ma nessuno, per quanto è dato sapere, si è spinto a immaginare un ruolo “attivo” del governo volto a deviare l’attività dell’intelligence rispetto ai compiti previsti dalla legge. Occorre, quindi, partire dal riconoscimento che il governo è la prima vittima degli eventuali comportamenti infedeli da parte di appartenenti agli apparati della sicurezza nazionali. Paradossalmente, il fatto che l’Autorità delegata sia oggetto delle polemiche ne è la conferma ulteriore.
Mantovano ripete spesso che l’intelligence è un settore in cui, se c’è silenzio, significa che tutto fila liscio. Se se ne parla, allora vuol dire che qualcosa non sta funzionando. Quanto emerso sulla stampa solleva interrogativi, a volte anche inquietanti.
Allo stesso modo, l’impressione è che il vespaio sia emerso, o stia emergendo, in una sequenza temporale che segue le scelte del governo nel cambiamento della governance del sistema delle informazioni per la sicurezza. Anche qui andrebbe posta una domanda: il governo, attraverso l’Autorità delegata, ha nominato ai vertici dell’intelligence figure in qualche modo “vicine” politicamente? L’impressione è che non si sia ceduto alla tentazione di favorire “amici” bensì di selezionare le figure migliori (questo è il caso, da ultimo, del nuovo direttore del Dis, il prefetto Vittorio Rizzi). Chi ha responsabilità pubbliche assume si di se sia l’onore che l’onere di questo ruolo. Le critiche, gentili o feroci, circostanziate o massimaliste, fanno parte del gioco e Mantovano ha sufficiente esperienza e sensibilità per interpretarle correttamente. Il tema, però, non è nel buttarlo in politica (abbasso il governo, viva il governo).
È fondamentale, oltre che urgente, riflettere su quanto accaduto, individuare le responsabilità e riportare i servizi segreti alla logica che aveva animato la riforma del 2007. Una riforma che nel tempo è stata interpretata con le lenti del passato, in cui il segreto (disciplinato proprio da quella riforma) è stato poi (volutamente?) confuso con il mistero. Non è affatto da escludere, infatti, che quello che vediamo emergere non sia altro che una indiretta risposta al tentativo del sottosegretario di rimettere il comparto nei binari in cui dovrebbe in effetti essere.
Alla dietrologia, tuttavia, non si risponde con ulteriore dietrologia. Cerchiamo di attenerci ai fatti. E i fatti sono che la legge regola il funzionamento dell’intelligence e prevede non soltanto gli obblighi di governo e Parlamento ma anche il ruolo, tanto riservato quanto cruciale, degli ispettori generali. Si tratta di figure fondamentali per garantire il funzionamento della macchina, alle quali la legge assicura “piena autonomia e indipendenza di giudizio nell’esercizio delle funzioni di controllo”. Il legislatore non ha fatto troppo male, forse. E forse varrebbe la pena fidarsi delle istituzioni e del loro lavoro, soprattutto quando è silenzioso ma non di meno efficace (almeno potenzialmente).