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Itaca, Odisseo e una domanda di fondo: guerra o pace? La recensione di Ciccotti

Con l’intrigante Itaca. Il ritorno (2024), Uberto Pasolini rilegge l’ultima parte del poema omerico, la vendetta di Odisseo. Con una doppia opzione che interpella eticamente lo spettatore: guerra o pace? La recensione di Eusebio Ciccotti

Il mare mugghia, il cielo è coperto, inquadrature in plongée mostrano le onde sospinte dal vento mentre si schiantano sugli scogli, frantumandosi in densa candida schiuma, avanti e indietro. Siamo dentro le spatolate di William Turner, improvvisamente animatesi. Sulla spiaggetta di una insenatura giace un corpo nudo, di un uomo statuario, bocconi. Le onde sulla minuscola battigia, con il loro interminabile sciabordare sollevano leggermente le gambe del naufrago, come a benedire quella vita salvata, a nuova rinascita.

Lì accanto, abbiamo visto una rudimentale minuscola zattera, composta di poveri piccoli legni legati tra di loro, fradicia, a forma d’isoscele conchiglia, appena dondolata dalle increspature delle piccole onde. In alternato ci vengono mostrati dei giovani uomini, arroganti, pronti a  banchettare all’aperto (successivamente, anche al chiuso nell’ampio ampio salone del palazzo regale), comodamente; ordinando al locale allevatore di porci, caprette e pecore, sempre giovani e tenere bestie, da macellare e poi arrostire.

Il porcaio (Claudio Santamaria, equilibrato nella parte) scorge il naufrago (Ralph Fiennes) e lo porta nella sua capanna, per assisterlo e rifocillarlo, rischiando la vita, perché “se loro [i Proci] vedono che accogli uno straniero ti possono uccidere”, gli ricorda un suo aiutante. Come vedete la sceneggiatura, già nei primi cinque minuti, ha messo sul tappeto temi antichi e sempre attuali: il viaggio della disperazione; la ricerca di un nuovo approdo; lo straniero; il dovere morale (per i Greci era sacro) dell’accoglienza; poi, anche coloro che sono contro l’accoglienza.

Siamo dentro quel libro che alle scuole medie dovremmo aver letto tutti (alcuni brani in traduzione; o in “riassunti”); altri, al liceo, provarono a tradurne dei passi (dall’originale in versi, dal greco), che è uno degli archetipi del racconto della cultura occidentale: l’Odissea di Omero. I ventenni e trentenni del ’68, impegnati nella rivoluzione culturale, non trovarono il tempo per vederlo come “film” a puntate, in bianco e nero, in televisione (venti anni dopo uscirà, a colori, come era in originale, in Vhs); mentre quelli che avevano dieci-dodici anni (tra cui chi scrive), lo aspettavano ogni sera, con genitori e sorelle/fratelli/cuginetti, accoccolati davanti al televisore. Era lo “sceneggiato televisivo”, Odissea di Franco Rossi, nella indimenticata “introduzione” del quasi ottuagenario Giuseppe Ungaretti, consistente nella seria lettura interpretativa di grappoli di versi, con voce roca e cavernosa. Un autentico boom di ascolti. La miniserie fu venduta in quasi tutti i Paesi del mondo.

Itaca. Il ritorno (2024) di Uberto Pasolini, in attesa di un ulteriore confronto, per pubblico e critica, con The Osdyssey (2026) di Christopher Nolan, ha dovuto tener conto del classico di Rossi. Per tale ragione Pasolini ha chiesto la collaborazione, nel ri-raccontare per immagini e parole il romanzo dei romanzi, a John Colee e Edward Bond. Per non deludere troppo lo spettatore che conosce quel capolavoro Rai per il quale l’azienda mise in campo un plotone di studiosi e autori di letteratura e cinema: Gian Piero Bona, Vittorio Bonicelli, Fabio Carpi, Luciano Codignola, Mario Prosperi e Renzo Rosso. E, sul set, nei ruoli centrali, Bekin Fehmiu e Irene Papas.

Pasolini e il suo team si prendono la libertà d’introdurre alcune varianti, come è consentito nella logica traduttiva (ossia del “trasporto”) di ogni ipotesto verso la realizzazione di un nuovo testo di arrivo (testo altro: soprattutto se vi è un cambio di codici narrativi: in questo caso, dal letterario al cinematografico).

Quindi nulla da obiettare se Eumeo, prima di Telemaco (in Omero è il contrario) capisce chi si nasconde dietro quel povero, umile, mal ridotto, silenzioso, ma attento straniero. Un uomo interessato a porre domande, fintamente innocenti (“La regina si è risposata?”). Oppure nell’episodio del fedele Argo, da anni acquattato al suolo, sulla porta del palazzo, quando riconosce il mendicante: si alza un pochino sulle zampe, emette dei flebili guaiti di gioia (come in Omero): ma Pasolini fa dire al mendicante, a due metri da Eumeo, sottovoce: “Argo!”. Ed è qui che il fedele porcaio (a differenza del testo omerico) ha la prova che quel mendicante è il suo vecchio re.

Altra variante. Ricorderete come nella coda dell’originale omerico vi è la possibilità che gli abitanti di Itaca non accettino Odisseo, dopo la strage dei Proci: dopo aver perso i suoi compagni, altri lutti: troppo per il popolo. Ma Atena interviene e fa desistere gli abitanti dalla loro vendetta. Questa scena non compare nel film (come del resto in quello di Rossi), ma l’interessante motivo dei “troppi morti” viene affrontato nell’incontro-scontro tra Telemaco e Odisseo, presso la capanna di Eumeo. Il giovane figlio, arrabbiato con suo padre per la inutile partenza di vent’anni prima, e le morti dei suoi soldati, gli parla chiaro e forte: «Non pensare che il popolo sosterrà la tua idea di tornare al trono dopo avergli ucciso altri figli».

Eccoci alla sequenza finale: la vendetta-strage dei Proci, tramite l’arco che Odisseo scalderà sulla fiamma e tenderà, facendo sibilare la freccia tra i fori delle asce: fedele al testo. La variante arriva con la morte di Antinoo (Marvan Kensan), per gli sceneggiatori, un cattivo moderato, con rimasugli d’una lontana educazione. In Omero è molto tracotante e volgare; colpisce con uno sgabello il vecchio medicante quando questi entra a palazzo la prima volta, per chiedere l’elemosina: per questo Odisseo lo ucciderà per primo.

Nel film, al contrario, Antinoo morirà per ultimo. Tutti i suoi compagni giacciono riversi in diversi luoghi della sala, che somiglia a un campo di battaglia. Ora ha di fronte, disseminati tra i cadaveri e i tavoli ribaltati, Odisseo, Telemaco, Penelope, Eumeo, Euriclea. Tutti lo guardano. Tira fuori la sua sarcastica ironia, rivolgendosi a Penelope. «Questo è l’amore di cui tu parlavi?». Alludendo all’amore per suo marito che le impediva di sposare alcuno. Telemaco, che miracolosamente è sfuggito per due volte agli agguati mortali orditi da Antinoo e dai suoi amici nobili usurpatori, sta per giustiziarlo, ma la madre grida “Nooo!”. Penelope (Juliette Binoche: è qui che mostra meglio le sue corde drammatiche) è stanca di sangue, ma forse, lasciano intendere gli sceneggiatori, tradisce un po’ di affetto verso Antinoo; grazie al suo corteggiamento ha tenuto fermi gli altri Proci, da mesi intenzionati a risolvere in modi spicci la questione della “vedovanza”. Ma Telemaco, con il suo pugnale, lo decolla.

Altre piccole varianti fanno capolino qui e là. Scena dell’arco. Penelope ordina, sottovoce, a Telemaco, «Dai l’arco a tuo padre!». Nonostante Penelope sembri rassicurare lo spettatore circa il riconoscimento del suo uomo, non intende poi escludere la prova del talamo nuziale: prova che Odisseo supera. Ossia (altra mini variante) l’uomo posto di fronte a un (finto) letto matrimoniale lo scaraventa via. E sale nel palazzo, in un’altra stanza, fino al vero talamo, quello saldo. Solo ora Penelope ha ricostruito interamente la carta di identità del forestiero giustiziere. Il luogo in cui l’amore vive, consuma e genera la vita: la prova delle prove.

La sceneggiatura attualizza fortemente il tema della guerra. Penelope sconsolata commenta: “Quanto sangue, troppo sangue. Abbiamo sempre vissuto in pace”. L’anziana nutrice Euriclea, correggendola, replica “Non era pace. È stato necessario”. All’inizio del film, ecco alcune riflessioni sulla guerra del mendicante ex soldato con l’umile e fedele Eumeo (un lavoratore che mostra di conoscere bene gli uomini osservandoli attentamente senza dare l’impressione di scavare con lo sguardo: e Santamaria ci riesce lavorando in sottrazione). Il mendicante: “Dopo Troia, ci saranno sempre guerre, sino alla fine del mondo”. “Gli uomini dimenticano la pace quando vivono sempre in guerra, poiché questa diventa per loro la normale vita”. Ralph Finnies ci restituisce un Odisseo mai sopra le righe: sia come “filosofo” sia come uomo d’azione.

Nella scena che precede la chiusa Penelope sta lavando il corpo di suo marito, ricoperto degli schizzi di sangue dei Proci, entrambi in primo piano largo, da sotto in su. Si promettono di “ricordare e dimenticare allo stesso tempo”, ma anche di vivere ed “invecchiare insieme”. Mentre Telemaco lascia l’isola per dar inizio alla sua vita (magari vedremo un sequel eminentemente cinematografico).

Gli appassionati di fotografia apprezzeranno il delicato lavoro di Marius Panduru, sia negli interni in penombra, dove la luce delle candele o lampade ad olio, continuamente si spalma a piccole onde sui volti dei personaggi, simulando il venticello che muove le fiammelle, dettando così un singolare ritmo della luce, necessario per la tensione psicologica e drammatica. Come felicemente sature di luce le aperture ai colori della natura negli esterni: tra boschi, strapiombi rocciosi, cascate, e piccoli laghi (vedi l’inseguimento dei Proci nei riguardi di Telemaco, suo padre, Eumeo e aiutante: altra variante).

Uberto Pasolini, dopo la popolare serie di Game of Throne, in cui lo spettatore sì è accostumato a spade che squarciano e dilaniano corpi, con schizzi e flutti di sangue, amputazioni, decapitazioni, era autorizzato a riprodurre la violenza delle armi da taglio con una inevitabile oggettività documentaristica, che mai però si compiace dello splatter e dell’orrore gratuito (infatti è delicato nell’inserire l’aposiopesi visiva nel momento in Telemaco stacca la testa di Antinoo).

Quale può essere il rischio etico dee film? Il racconto, argutamente antinomico, offre due letture, entrambe ammesse, linguisticamente vere, direbbe Ludwig Wittegenstein. La vendetta “è necessaria” (Euriclea); “troppo sangue”, Penelope. È difficile, ancora oggi, rispondere con: “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Luca 6,27-30). Come leggeranno Itaca. Il ritorno gli ucraini e i russi; i palestinesi e gli israeliani il popolo sudanese diviso in due? Se non attraverso il Vangelo, speriamo si ricordino del saggio Omero: aveva fatto intervenire Atena, dea della ragione, contro ogni vendetta.


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