Come non sarà sufficiente imporre dei dazi per correggere la divergenza, altrettanto sarà del tutto inutile colpire le esportazioni europee. Lo sforzo di riequilibrio per entrambi i mercati dovrebbe essere, invece, la ricerca di un più giusto mix tra le due esigenze: quella della crescita economica e della stabilità finanziaria. Il commento di Gianfranco Polillo
Al momento la minaccia di Donald Trump sui dazi agli europei è solo un idea. “Un’astrazione” come avrebbe detto Giorgio Gaber, che potrebbe (ma chi lo ha detto?) divenire realtà il prossimo 12 marzo. Se nel frattempo non si sarà trovato un diverso accordo con i vari partner commerciali. Insomma la tattica negoziale del rieletto presidente americano è sempre la stessa. Agitare prima il bastone e solo in un secondo momento offrire la carota. Si spiega così la voce dal sen fatta fuggire, secondo la quale la Presidenza sta anche valutando la possibilità di penalizzare le importazioni di automobili, semiconduttori e prodotti farmaceutici. Siamo, quindi, all’inizio di una svolta drammatica nelle relazioni non solo economiche, ma politiche, che riguarderanno soprattutto l’Occidente?
Staremo a vedere. Nel frattempo è facile osservare come negli ultimi tre mesi il dollaro si sia apprezzato di circa il 4% nei confronti dell’euro. Riflesso dell’azione muscolare del 47° presidente degli Stati Uniti, e della sua proposta di rendere “l’America di nuovo grande”. Che succederà se dalle parole si passerà ai fatti e i dazi diverranno la nuova regola generale del commercio internazionale? Con ogni probabilità la corsa al rialzo del dollaro continuerà. I dazi, infatti, dovrebbero contribuire ad una riduzione del deficit della bilancia commerciale a stelle e strisce. Altrimenti che si mettono a fare? E già questo elemento dovrebbe contribuire a rendere più appetibile il dollaro. La cui circolazione dovrebbe tendenzialmente diminuire, proprio a seguito della riduzione di quel deficit. Per contro assisteremo, invece, ad una riduzione del surplus della bilancia commerciale europea. E di conseguenza ad una svalutazione dell’euro.
Se questo schema asimmetrico dovesse verificarsi, avremo un vantaggio per gli esportatori europei che duplice. Maggiori spazi di mercato, dato che l’acciaio europeo, grazie alla rivalutazione del dollaro, negli Stati Uniti costerà meno. Ed un vantaggio in patria in termini di prezzo, dovuto alla rivalutazione del concambio dollaro/euro. Come opereranno allora i dazi?
Dipenderà dal movimento delle valute. Certo un dazio del 25% è difficile da riassorbire. A meno che il dollaro non si rivaluti del 12,5% e l’euro si svaluti di altrettanto. Può sembrare un calcolo avveniristico. Sennonché nel 2008, il dollaro si svalutò nei confronti dell’euro del 32%. Certo: quelli erano gli anni della Global Financial Crisis. Ma c’è forse qualcuno che, a cuor leggero considerato lo stato delle relazioni internazionale ed i venti di guerra che agitano l’intero Pianeta, possa sostenere che oggi i tempi sono migliori? E che l’incertezza sia solo la caratteristica di un lontano passato?
Nella politica dei dazi, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, si rischia pertanto l’eterogenesi dei fini. Si pensa ch’essa possa fare bene all’economia americana, salvo poi scoprire, tra qualche mese, risultati più che deludenti. Del resto l’esperienza della prima presidenza Trump è tutt’altro che confortante.
Al termine del suo primo mandato, il deficit commerciale americano, nonostante l’introduzione dei dazi, era cresciuto del 14%, passando, secondo i dati del Fmi, da 792 a 901 miliardi di dollari. Ad esserne colpiti soprattutto le esportazioni cinesi, giapponesi e tedesche. Ma a tutto vantaggio di altri: Vietnam, Messico e Taiwan ed una pletora di Paesi minori. Dati che dimostrerebbero quanto fosse stata labile fin da allora quella proposta, che oggi si vorrebbe replicare. Ma in un contesto internazionale profondamente mutato.
L’Occidente è più che malandato. Insidiato in tutti i suoi storici confini: In Europa con la guerra in Ucraina. In Medio Oriente con il tentativo di distruggere Israele da parte delle milizie che rispondono agli ordini dell’Iran, nell’Indo Pacifico con le mire cinesi su Taiwan. Per contro, se è consentito dirlo, le strategie dei suoi nemici appaiono molto più intriganti. Si pensi all’attenzione che Russia e Cina hanno dedicato ai Brics, che già oggi rappresentano una nuova forza.
In pochi anni gli aderenti sono raddoppiati, con l’ingresso di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran ed Indonesia. Il loro peso specifico, in termini economici, è già superiore a quello del G7: 35% del pil globale, a parità di potere d’acquisto, contro il 30%. L’ipotesi della de-dollarizzazione dell’economia mondiale è diventata una loro bandiera. Obiettivo, indubbiamente ambizioso, ma intanto Donald Trump si è innervosito. Molti nemici molto onore? Nella storia il detto di Georg von Frundsberg, capo dei lanzichenecchi che violentarono Roma, nel 1527 d.c., ha portato fortuna solo a lui. In tutti gli altri casi si è risolto in un’inevitabile sconfitta.
Un grande economista storico americano, come Charles Kindleberger, era solito ammonire, ricordando che ogni funzione di leadership comporta oneri ed onori. L’obbligo di garantire i propri diretti, unito al vantaggio derivante dall’esercizio di una simile funzione. Ovviamente è troppo presto per giudicare, ma al momento non sembra che Donald Trump abbia intenzione di seguire quella strada. L’Europa, tuttavia, per quanto sarà possibile, dovrà evitare di cadere nella trappola di un gioco che, alla fine, andrà a favore soprattutto dei nemici storici dell’Occidente.
L’approccio più giusto è dare a Cesare quel che è di Cesare. In tutti questi anni gli Stati Uniti hanno fatto molto. Certo non tutte le ciambelle sono riuscite con il buco. Ma il supporto dato è innegabile. L’ombrello militare americano ha consentito di poter risparmiare risorse da destinare al welfare e ad una vita meno ansiogena. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno goduto di una crescita economica che, negli ultimi anni, per gli europei era impensabile.
Nel 2008, infatti, il Pil dell’Eurozona (dati Fmi) era pari a 14.285 miliardi di dollari. Quello americano era solo leggermente superiore: 14.770. Lo scorso anno, invece quei rapporti erano così mutati: Eurozona, 16.370. Stati Uniti, 29.168. Con una differenza pari quasi all’80 per cento. Dati che dimostrano, com’è solito ripetere Federico Rampini, come l’America sia stata grande anche prima dell’avvento di Trump.
Queste differenze scontano ovviamente anche un diverso tasso d’inflazione: negli Usa leggermente superiore. Ma anziché costituire un aggravante, queste differenze confermano la diversità sostanziale del “modello” di politica economica seguito. Un’inflazione contenuta è un potente stimolo allo sviluppo. Rende più fluidi i passaggi. Lubrifica le giunture dell’economia. Favorisce il cambiamento. Richiede, ovviamente, dei controlli, che negli USA sono affidati soprattutto alla politica monetaria. Mentre quella fiscale è stata sempre più libera. Nei primi 25 anni che hanno segnato la vita dell’euro, il deficit di bilancio americano è stato pari ad una volta e mezza quello italiano e più di quattro quello tedesco. Coefficienti che sono quasi raddoppiati all’indomani di quello spartiacque – la Global Financial crisis – che ha cambiato la faccia dell’intero Pianeta.
È durante questo secondo periodo che le colpe dell’Europa diventano prevalenti. In precedenza infatti le due economie erano progredite di concerto. La stessa Italia, allora considerata il “malato d’Europa” aveva registrato un tasso di crescita maggiore che aveva comportato una riduzione del rapporto debito/Pil: dal 113,3 per cento del 1999 al 103,9 del 2007, come aveva ricordato lo stesso governatore della Banca d’Italia, nelle sue Considerazioni finali del maggio 2016. Per combattere le conseguenze di quella crisi ed il relativo rischio di contagio, l’Ue era approdata invece nel cupo regno dell’austerity. Comprimendo la domanda interna, oltre misura, ed affidando le residue possibilità di crescita al solo traino delle esportazioni. Che da quel momento erano divenute il piccolo motore del suo limitato sviluppo.
Il grande mercato americano era stato uno dei principali sbocchi. Mentre le importazioni da quel Paese incontravano il limite di una domanda interna tendenzialmente stagnante. Da qui l’inevitabile crescita di un saldo attivo della bilancia commerciale, che oggi Trump rimprovera ai suoi poco disponibili alleati. Nel 2009, infatti, il saldo commerciale positivo per i principali Paesi europei (Germania, Irlanda, Italia e Francia) era rimasto più o meno stazionario, passando da 67,7 miliardi di dollari a 72,6; nei successivi dodici anni (2021/2009) il balzo sarà a 189 miliardi di dollari.
Ed ecco allora il senso più vero delle differenze tra i due lati dell’Atlantico. Negli Stati Uniti la scelta era stata soprattutto a favore della crescita economica, ignorando le possibili perdite sul fronte delle relazioni commerciali. Nella Ue, invece, austerity über alles anche a costo da dipendere soprattutto dalle esportazioni.
Semplice, l’eventuale morale. Come non sarà sufficiente imporre dei dazi per correggere la divergenza. Altrettanto sarà del tutto inutile colpire le esportazioni europee. Lo sforzo di riequilibrio per entrambi dovrebbe essere, invece, la ricerca di un più giusto mix tra le due esigenze: quella della crescita economica e della stabilità finanziaria. Cooperare in questa direzione sarà forse più difficile, ma anche la garanzia più forte per non indebolire un’alleanza politico sociale che, per entrambi, è presidio di sicurezza.