È necessario “ordinare” la cultura, perché il disordine può sicuramente essere un valore aggiunto per i produttori primari (artisti, musicisti, scrittori, ecc.), ma di certo non fa bene ad un comparto economico che si rispetti. L’opinione di Stefano Monti
Introdotto dalla Treccani nella sezione neologismi nel 2018, il verbo trollare significa: “Comportarsi da troll, provocando e disturbando altri utenti della rete telematica”. Per esempio, si “trolla” facendo commenti su pagine o gruppi Facebook il cui unico compito è quello di far arrabbiare tutti, o, nelle versioni più “erudite”, inventando notizie false (credibili ma esagerate) e pubblicandole online, così da scatenare la rabbia di coloro che sono più “ingenui” perché accecati dall’antipatia o l’odio verso un determinato tema o verso un determinato personaggio pubblico. Ancora, tra gli esempi più evidenti di “troll” rientra senza dubbio l’iniziativa dei 5 Stelle che durante la discussione per la conversione in legge del cosiddetto Decreto Cultura, hanno massivamente invaso la discussione facendola volutamente deragliare sul caso Almasri.
Si tratta, chiaramente, di un’azione politica che riguarda un tema molto importante, sia in senso assoluto, e che pertanto va rispettato nella forma più totale, sia in una logica di dibattito mediatico settimanale, condizione che va rispettata nei limiti del proprio essere strumento di confronto e dialogo tra Parlamento e governo.
Pur nel pieno rispetto, pertanto, dell’agire dei nostri rappresentanti politici, a prescindere dalle forze politiche che essi rappresentano, e nel pieno rispetto umano e politico della vicenda che è stata oggetto di contestazione, non si può tuttavia sottacere il palpabile sospetto che tale agire non si sarebbe verificato se ad essere al centro dell’attività parlamentare ci fosse stata la conversione in legge di un decreto relativo ad altri comparti industriali.
Un sospetto che non può essere scalfito da potenziali dichiarazioni recanti l’importanza che il Patrimonio Culturale ha avuto in questo o quel programma elettorale, sia perché i programmi elettorali vengono ormai abitualmente vilipesi e declassati a generiche dichiarazioni di intenti, sia perché l’importanza che questa o quella forza politica può realmente riconoscere alla cultura non ha assolutamente rilievo in questa vicenda.
Perché questa vicenda, in realtà, è soltanto l’ennesimo caso specifico di una serie piuttosto ampia e assolutamente bipartisan di un generale atteggiamento istituzionale che probabilmente merita una riflessione, e forse qualche correttivo.
Esemplare è, ad esempio, l’utilizzo strumentale e polemico condotto dalla Lega, che ha presentato, nel processo di conversione del Decreto Legge, un emendamento nel quale si proponeva di declassare il parere delle soprintendenze da vincolante a consultivo. O ancora, esemplare, tornando indietro nel tempo, il numero di previsioni di legge (anche approvate) in attesa di concreta implementazione: dalle misure introdotte per il Tax Free Shopping dal governo Renzi, alle più recenti previsioni di un modello di Start-Up per le industrie culturali e creative o anche soltanto alla costituzione di un segmento concreto d’impresa che riguardi le industrie culturali e creative, o ancora la presenza, ben più risalente, di differenze tra l’Iva tra differenti beni culturali (opere d’arte e libri, per intenderci).
Meno “tecnico”, ma ugualmente rilevante, è anche il modo con cui è stata gestita la vicenda del “Caso Sangiuliano”, così come è stata gestita la vicenda Spano, o ancora, sono esemplari le modalità con cui sono state gestite le problematiche sorte intorno alla Mostra sul Futurismo: un insieme piuttosto disordinato di “interventi a gamba tesa” da parte di politici e giornalisti, con azioni che hanno probabilmente goduto di un’eco ben più ampia di quanto avrebbero meritato, o con dichiarazioni che in altri contesti non sarebbero mai state pubblicamente avanzate.
Il tutto, mentre il ministro Giuli, con rarefatta erudizione, introduce nelle proprie dichiarazioni citazioni a volte ambigue e a volte vacue, e mentre un giornalista come Travaglio in monologhi dedicati ai fatti di cronaca citati, li inquadri dapprima come “microstorie”, (forse anche correttamente) rispetto a quanto succede nel mondo, e e poi arrivi ad affermare che “di questo MIC – Ministero della Cultura” – nessuno si era mai accorto che esistesse per decenni” e senza tener conto dell’insieme di dichiarazioni surreali che negli anni si sono susseguite sul patrimonio culturale italiano (c’era chi sosteneva rappresentasse il 99% del patrimonio culturale mondiale) e sul valore di tale patrimonio (c’era chi lo definiva il “petrolio d’Italia”), e sul fatto che con questo patrimonio “non si mangiasse”, e delle veementi reazioni suscitate. E senza tener conto del fatto che negli ultimi anni, la cultura, che era gestita sempre con minori risorse, ha visto anche emergere una fortissima competizione tra Pubblico e Privato, con il settore pubblico che alle volte agisce in regime di concorrenza nei riguardi del privato, che in alcuni casi redige bandi di gara che mettono il privato in condizioni piuttosto delicate nei riguardi dei dipendenti (non riconoscendo un prezzo adeguato per ora, si impone un ribasso sul pagamento di questi ultimi), e che, in alcuni casi, tenta vere e proprie azioni “imprenditoriali”, come il tentativo di soppiantare tutti gli operatori di ticketing presenti nei musei con una piattaforma (poi inutilizzata) finanziata da fondi pubblici, o con il tentativo di sviluppare “piattaforme di video streaming dedicate” piuttosto che siglare accordi con gli operatori (anche nazionali e statali) già esistenti sul mercato.
Un ultimo esempio di questo atteggiamento poco attento e poco ponderato emerge anche dall’analisi dello stesso Decreto Legge sulla cui conversione il governo ha deciso di chiedere il voto di fiducia, e che mostra, come è stato anche notato in sede di discussione parlamentare, una netta distanza tra le intenzioni iniziali e le azioni che da tali intenzioni discendono.
Intenzioni tutte contenute all’interno dell’Articolo 1, dove si legge che “Il ministro della cultura adotta il «Piano Olivetti per la cultura», al fine di favorire lo sviluppo della cultura come bene comune accessibile e integrato nella vita delle comunità (…) promuovere la rigenerazione culturale delle periferie, delle aree interne e delle aree svantaggiate (…); valorizzare le biblioteche, con il loro patrimonio materiale e digitale, quali strumenti di educazione intellettuale e civica; promuovere la filiera dell’editoria libraria; tutelare e valorizzare il patrimonio e le attività degli archivi nonché degli istituti storici e culturali.”
A tale articolo, ambizioso sia dal nome del Piano sia dalle finalità che tale piano persegue, seguono tuttavia articoli legati all’istituzione di un’unità di missione per la cooperazione con l’Africa (articolo 2), la previsione di azioni per la celebrazione del venticinquesimo anniversario della Convenzione europea sul paesaggio (articolo 4), l’erogazione di contributi a istituti di natura storica e numismatica (articolo 5), misure (articolo 6) per la Carta Cultura Giovani e la Carta del Merito (le attuali riformulazioni non poco criticate della precedente 18app), seguite poi da modifiche di precedenti leggi.
L’unica azione di rilievo è contenuta nell’articolo 3 che istituisce, per l’editoria e l’industria libraria, un fondo di circa 35 milioni di euro, ripartiti tra il 2024 (4 milioni), il 2025 (circa 25 milioni) e il 2026 (circa 5 milioni).
Ad eccezione di tale azione, però, è evidente che (anche questo è stato fatto notare in aula) alcune delle azioni previste dal Decreto, oltre a rispondere in modo molto lieve alle dichiarazioni, risultano essere forse quali al limite dell’utilizzo dello strumento del Decreto Legge, il cui utilizzo è vincolato ad azioni di carattere urgente e straordinario, condizioni difficilmente ascrivibili ad esempio alle azioni per la celebrazione del venticinquesimo anniversario della Convenzione europea sul paesaggio, così come risulta poco straordinaria la presenza di azioni ad invarianza finanziaria, come esplicitate nell’articolo 12 dello stesso Decreto.
Più che entrare nel dettaglio specifico, però, questa evidente distanza tra dichiarazione e azioni può essere ascritta tendenzialmente a due principali motivazioni: un utilizzo forsennato della dialettica a fronte di uno scarso intento di governo, o una necessaria azione di contenimento delle intenzioni per ragioni politiche ed economiche.
In entrambi i casi, una mancanza di attenzione nei riguardi di un settore che, e qui senza dubbio si accede al registro più aulico della retorica istituzionale, è riconosciuto da tutte le cariche istituzionali come uno dei perni non solo della nostra vita democratica, ma anche della nostra economia.
Chi ha memoria e attenzione nei riguardi del comparto culturale (sia esso inteso come patrimonio, sia esso inteso come settore di produzione, posta la difficoltà di tracciare un confine tra le differenti “anime” di cui il comparto culturale si compone), potrà aggiungere a questo esiguo numero di esempi numerosissime ulteriori vicende, legate tanto agli aspetti strutturali quanto contingenti.
Non si tratta, tuttavia, di esporre tali vicende con il piglio troppo spesso abusato di chi si limita a sottolineare la propria delusione e a richiedere più fondi, più attenzione, più riconoscimento. Si tratta di avviare una riflessione legata al “sospetto” di una scarsa attenzione istituzionale in merito ad un comparto che, al netto degli iperbolici assolutismi da titolo di giornale, in ogni caso rappresenta un segmento significativo nella vita economica del Paese, e che in virtù delle oggettive difficoltà di inquadrare la “cultura” all’interno di un determinato settore merceologico, ha da molto tempo superato il confine dell’indefinito, divenendo completamente amorfo.
Non si può descrivere altrimenti un comparto in cui, nei fatti, coabitano Mondadori, l’etichetta indipendente di musica trap, il produttore di videogames, le imprese di produzione cinematografica, le software-house, le gallerie d’arte, e, secondo varie estensioni, anche chi produce gli strumenti per consentire a queste figure di operare (i produttori di strumenti musicali ecc.). Così come non si può descrivere altrimenti un comparto che, più degli altri settori, è principalmente composto da imprese micro o Pmi, ma che ha come referente la Fondazione Altagamma, che raccoglie le eccellenze non solo qualitative, ma anche e soprattutto industriali del “Made in Italy” (dalla Ducati a Cucinelli, dalla Ferrari a Ferragamo, passando da Missoni, Max Mara, Prada, Hotel Principe di Savoia, De Russie, Valentino, Skira, Technogym, Segnana, S. Pellegrino Maserati, Gucci, Feudi di San Gregorio).
Ad oggi, data la grande eterogeneità di soggetti, segmenti di produzione, catene di produzione, committenze, tipologie di lavori svolti, all’interno del comparto cultura coesistono: lavoratori stagionali, dipendenti pubblici con contratto dirigenziale, lavoratori part-time con contratto Multiservizi o Commercio, lavoratori part-time o full-time con contratto Federculture, che è un contratto nato per essere specifico per la cultura ma che presenta tutele importanti per il lavoratore e costi importanti per le aziende, e che quindi viene utilizzato con parsimonia, come dimostrato dai componenti della Delegazione trattante rappresentanti società Inhouse o a partecipazione pubblica (LAZIOcrea, CSBNO, Zetema) o importanti fondazioni (tra le altre Musei Civici di Venezia, Fondazione Milano Scuole Civiche, MAXXI).
E questo, senza tener conto della sempre più vasta coorte di Partite Iva, fenomeni di autoimprenditorialità, start-up innovative, cooperanti di ogni sorta, organizzazioni del terzo settore – APS, ODV, Fondazioni – società partecipate, associazioni pro-loco, dipendenti comunali, provinciali, regionali, statali, dirigenti e manager.
È dunque forse del tutto naturale che, in assenza di una forma concreta, il settore culturale tenda ad essere spesso considerato come un settore “importantissimo, per carità”, ma senza un reale peso, quantomeno senza un reale peso politico.
Quest’assenza, è chiaro, è dovuta a fattori di differente natura, tra i quali di certo non acquisisce un ruolo secondario l’insieme di piccole e grandi rivalità e conflitti in parte inevitabili in una popolazione così vasta (secondo il rapporto Symbola, il settore cultura coinvolge circa il 6% del totale dei lavoratori nazionali), aggregata secondo una logica che difficilmente può essere applicata a persone così diverse tra loro.
È però del tutto evidente che un’azione di inquadramento debba emergere. Un inquadramento che, più che sviluppare “tutele di categoria”, si rivolga dunque alle differenti tipologie di posizione occupazionale, così da poter avviare un’azione trasversale tra i differenti comparti e raggiungere un sufficiente numero di persone che condividano i medesimi interessi.
È necessario “ordinare” la cultura, perché il disordine può sicuramente essere un valore aggiunto per i produttori primari di cultura (artisti, musicisti, scrittori, ecc.), ma di certo non fa bene ad un comparto economico che si rispetti.
Così come è necessario comprendere che in democrazia la forza politica, oltre a tutelare gli interessi della nazione, tutela anche gli interessi del proprio elettorato, e che essere sufficientemente coesi e numericamente significativi può generare una migliore attenzione da parte delle istituzioni, verso un tema che altrimenti rischia di essere ancor più vago della “saggezza dell’acqua e degli alberi” (citazione dal ministro Giuli).