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Le sorprese dell’Oman e il modello Muscat. Il diario di viaggio di Riccardo Cristiano

L’Oman è una sorpresa. Le sue bellezze paesaggistiche lo sono di certo, dagli echi delle Mille e una notte ai racconti del deserto che ti prendono con sé in una sinfonia silenziosa che può essere dura, come la realtà, ma affascina sempre, come i sogni a occhi aperti. Il reportage di Riccardo Cristiano

Il turista che arriva in Oman si trova subito immerso in quello che potrebbe essere l’esempio di una terza via urbanistica araba: la capitale Muscat infatti non è la caotica città che si immagina chi conosce le città tradizionali, come il Cairo, ma neanche lo svettante susseguirsi di shopping center di quelle nuove e fiammanti, i cosiddetti luna park urbani, come Dubai.

Si entra in una città senza grattacieli ma anche senza vecchia casba o favelas. Un modello urbano che sa di “ceti medi”, di sviluppo ordinato. Il vecchio suq di Muttrah, o Matrah, è bello ed esotico per il forestiero, magari occidentale, ma è anche ordinato e godibile per i suoi rimandi alle tradizioni, le volte che lo coprono con soffitti che d’estate proteggeranno dal caldo eccessivo e d’inverno dalle possibili piogge, e fa emergere accanto alle cianfrusaglie del mercato globale e ai soliti noti anche i prodotti tradizionali, incenso e caffè ad esempio, che accompagnano la popolazione locale nella loro giornata, sempre: chiunque si incontri, facilmente ha con sé del caffè, in un termos o in un bicchiere, e in macchina appositi fornelletti per profumarla con l’incenso. La tradizione si incontra con un ambiente che non stravolge né fossilizza. Ma come raramente accade nelle poche città arabe di mare, il lungomare è una Corniche godibile a piedi, un po’ il salotto urbano, un salotto in stile che dà l’idea di un Paese che fa parte del mondo arabo affluente ma non nell’ostentazione o trascinato nel kitsch.

Muscat insomma è un biglietto da visita di un Paese che non vuole “bucare”, dominare o riservarsi allo shopping estremo fuggendo dalle tradizioni e dalla realtà, che nasconde magari anime inconfessabili, abusi occultati; Muscat sembra un modello di normalità urbanistica, che rifiuta lo sfarzo ma accetta la modernità, senza voltare le spalle alle tradizioni. Il mercato del pesce, a due passi dal suq coperto di Muttrah, o Matrah, ne è forse l’esempio per eccellenza: pulito, ordinato, è un mercato “opulento”, ma senza eccessi, che presto si estende al resto della produzione agricola del posto.

Da qui si pensa facilmente che andare a vedere il vicino castello non sarà una traversata tra ambulanti e fastidiosi falsari. L’ascensore che consente l’ascesa conduce confortevolmente alla vista favoleggiante di una baia che sembra incantata, ma non perché è stata inventata l’altro ieri per proporre altri mall o luoghi di consumo eccessivo. Muscat è un modello urbano di possibilità araba, coerente con la sua identità. I grandi centri commerciali ci sono, ovviamente, ma non assorbono la città in una disneyland urbana.

Ogni tour condurrà alla grande moschea, anche questa votata alla “grandiosità” cara ai sultani o agli emiri del Golfo, ma senza strafare. Sarà vero come dicono tutte le guide che le autorità avranno sofferto per la perdita del loro primato, avere lì dentro la grande moschea il più grande tappeto del mondo: primato perso da quando il più grande è diventato quello dei grandiosi Emirati. Ma lo sguardo del visitatore va più facilmente alla perfetta geometria degli archi che si incontrano geometricamente fino a condurre all’ingresso al luogo di culto, non prima di aver fatto transitare per la poco esaltante moschea riservata alle donne, una presenza che parla di tradizioni che resistono anche nella loro scarsa avvenenza: questa distinzione resiste, c’è. Lo si può constatare facilmente in tanti ristoranti o aree di servizio, dove le onnipresenti sale per la preghiera sono sempre divise: questa per gli uni, quella per le altre. Questo trascorso non passa, ma potrà essere apprezzato che non lo si nasconde. È così. Ma il tempo dei nuovi costumi c’è, si vede per le strade, qualche donna non velata passa indisturbata, ma la gran maggioranza lo è. Siamo nel Golfo, non al luna park.

Al centro culturale islamico della grande moschea si può parlare amabilmente con dotti locali di dialogo religioso e di “essenza dell’islam”: uno di loro mi ha spiegato in modo pacato che noi chiamiamo Gesù “figlio di Dio”, loro lo chiamano “figlio di Maria”: tutto sommato, gli ho detto, un nome non esclude l’altro, e non è difficile notarlo. Ma che l’islam sia la religione che crede in tutte le religioni viene espressa in modo un po’ algido, ingessato. I passi avanti sono altri, fuori dalle loro formulette: se ne parlerà in altre occasioni anche con loro, i divulgatori ufficiali, che comunque sono cortesi.

Intanto col tempo per guardarsi intorno e cercare di capire come si viva qui la religione (che dipende dai governi, non dalla realtà della fede) si ha l’impressione che il conservatorismo religioso di questo Paese si è adattato a un sistema che per ora si è sistemato così; la legge “religiosamente ispirata” va rispettata in pubblico, in privato è un’altra storia. Per un mondo lento, dove lo Stato si sente anche incaricato di dettami “morali” e di “indicazioni attribuite alla fede” è un passo avanti, lento, come un po’ tutto qui. Il caldo rende la lentezza comprensibile anche per chi visiti questi ambienti nei mesi meno torridi.

Le bellezze naturali dell’Oman sono note e attraggono il turista come la luce attira le falene. Paesaggi lunari, castelli incantati dove si incontrano gruppi che in abiti tradizionali ballano e cantano come si fosse arrivati in una corsa indietro nel tempo. E l’ambiente rurale lo conferma nella sua lentezza più antica, nei suoi villaggi dove resistono le case di fango ma non sono abitate da disperati, ma conservate per preservare la storia, la propria radice. Tra chi canta e balla si trovano spesso anche bambini, il passato è anche per loro. L’Oman è una sorpresa, non una cartolina.

A Nizwah, l’antica capitale, c’è ancora il tradizionale mercato del bestiame. È un tuffo nella vita che non passa, resiste con i suoi sitemi. Il bestiame viene condotto in una piazza circolare: corrono i proprietari con le loro mucche, le loro capre, le loro pecore, il loro bestiame. E centinaia di possibili acquirenti osservano, fronte e retro, poi fanno la loro offerta: difficile capire quando il venditore dica “ok”, la corsa infatti continua, sempre, poi qualcuno esce, come in una gara sportiva dove nulla è violento.

Mercato

Il deserto, con i wadi, gli improvvisi palmeti, è l’altra grande attrattiva, che rapisce. Il mare è certamente bello, esotico nella sua scarsità di ecomostri – qualcuno c’è – ma è il deserto che funziona come una calamita, che fa entrare in una dimensione altra della vita: la grande bellezza è tra le dune di sabbia che si accavallano in una corsa di rosa e gialli brillanti, gole improvvise, sguardi lunghi, persi nel tempo che corre lontano, non qui.

Ma la sorpresa che prende di più sono loro, gli abitanti, i beduini del deserto; fieri, eleganti, quasi sempre ospitali e gioviali. Persone vere, non messe lì per fare pubblicità: un cammelliere con il quale mi sono intrattenuto per un po’, offrendo i suoi servigi mi ha invitato a usufruirne così: “Happy wife, happy life”. Non c’era nulla di maschilista in questa sua formuletta, un simpaticone vestito di bianco, senza un granello di sabbia sulla candida veste o tra i capelli. Chissà come era possibile: “Happy wife, happy life”, mi ha ripetuto, invitandomi, se fossi arrivato alla vicina città marina di Sur, ad andare a mangiare al miglior ristorante di pesce, subito dopo il ponte. Ci sono andato il giorno dopo a Sur, e il ristorante era lì. Ma prima di entrare dei signori che prendevano il fresco sul lungomare ci hanno invitato a fermarci con loro, a bere insieme il caffè omanita che avevano nell’immancabile termos, sommerso da datteri, tutto sulla panchina che era un po’ il loro sofà lungo la marina. Il caffè è una scusa per stare insieme? Il caffè è un vettore di amicizia, di solidarietà. E non lo si può prendere rifiutando però i datteri, questo no: prima i datteri poi il caffè.

L’Oman è una sorpresa. Le sue bellezze paesaggistiche lo sono di certo, dagli echi delle Mille e una notte ai racconti del deserto che ti prendono con sé in una sinfonia silenziosa che può essere dura, come la realtà, ma affascina sempre, come i sogni a occhi aperti.

L’islam è parte imprescindibile di questo mondo, con tutto quello che è stato e quello che è, ma sono loro, gli omaniti, che emergono come una sorpresa tra le mille bellezze di un Paese che ogni tanto ci illude che il tempo si è fermato ad aspettarci tra paesaggi lunari, pennellati di azzurro e grigio che si ingoiano fino a tremila metri d’altezza, sopra il giallo sfuggente dei panorami più a valle. Un padre di famiglia conosciuto per caso, dopo avermi offerto il caffè del suo termos per chiacchierare un po’, si è scusato per la necessità di fuggire: era festa e quel giorno tutta la famiglia, loro fratelli e sorelle con i loro coniugi e i loro figli, dovevano andare a pranzo, come in ogni giorno di festa, da suo padre; impossibile arrivare in ritardo.


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