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Dalla tattica alla strategia. Ecco il pensiero lungo della politica estera di Trump. Scrive Sisci

L’incontro con Netanyahu, quello con Ishiba e il prossimo con Modi sono le tre stelle di riferimento vere, di lungo termine, della amministrazione americana. Trattano il problema strategico di lungo termine degli Stati Uniti: affrontare la Cina. L’analisi di Francesco Sisci

Al di là delle passerelle, e delle vetrine facili e sbrilluccicanti dei primi giorni, oltre gli annunci bellicosi e scoppiettanti su tariffe ed allargamenti territoriali, il presidente americano Donald Trump contemporaneamente sta conducendo anche una sostanza più vera della sua politica estera.

La prima visita di Stato è stata dedicata al premier israeliano Benjamin Netanyahu, la seconda è stata per il premier giapponese Shigeru Ishiba, la terza sarà dedicata la prossima settimana a quella del premier indiano Narendra Modi. Sono le tre stelle di riferimento vere, di lungo termine, della amministrazione americana. Trattano il problema strategico di lungo termine degli Stati Uniti: affrontare la Cina.

Senza l’appoggio cinese la Russia sarebbe probabilmente già fallita nel corso della guerra in Ucraina; senza la Cina l’Iran starebbe soffocando nella regione e le sue milizie sarebbero affamate. Più in generale, la Cina rappresenta una sfida strategica, economica, militare, politica e culturale come forse l’Occidente non ha mai sostenuto dai tempi della scoperta dell’America, cinque secoli fa.

Il rapporto con Israele è quello più facile. Irto di dettagli, ma senza problemi strategici. Quello giapponese è più delicato perché andava messo su binari molto solidi e Tokyo deve diventare un alleato solido in Asia come la Gran Bretagna in Europa. Anche qui ci sono molti problemi “tattici” ma un profondo accordo strategico.

I problemi “tattici” (che rischiano di diventare strategici) sono quelli di una diffidenza sottile ma reciproca che gli Stati Uniti possano raggiungere un accordo con la Cina saltando il Giappone. Questo timore poi potrebbe spingere Tokyo a volere raggiungere un accordo con Pechino alle spalle di Washington. Il coordinamento strategico, di intenzioni fra Usa e Giappone è quindi cruciale per affrontare la Cina per entrambi, e deve essere basato su accordi di lungo termine, al di là della simpatia o antipatia personale dei capi di governo di turno nelle due capitali.

La visita di Modi è la più delicata di tutte. L’India rappresenta un contrappeso demografico oggettivo alla forza dei numeri cinesi. Sulla carta l’India potrebbe essere come è meglio della Cina, e, da sola, controbilanciare la sfida cinese. Solo che queste potenzialità indiane stentano a realizzarsi. La crescita economica dell’India è stata finora al di sotto delle speranze. Il Paese è afflitto da una serie di ostacoli amministrativi e burocratici che impediscono finora l’espansione rapida di aziende piccole, medie e grandi e delle infrastrutture.

Anche la sua politica estera è stata nella regione claudicante. In Nepal, Bangladesh, in Sri Lanka non è riuscita a opporsi con efficacia all’allargamento degli interessi cinesi. Il Myanmar, una volta costola dell’impero indiano inglese, oggi è senza una presenza politica indiana vera, e solo affidata all’influenza di Pechino, e parzialmente a quella thailandese.

Più in generale l’India ha sì aderito al Quad ma continua ad avere rapporti stretti con la Russia, con l’Iran e sta cercando di costruire nuovi rapporti con la Cina. Il problema di Washington, e di rimando del Giappone come grande alleato regionale dell’America, è quello di inserire l’India più saldamente entro un sistema di cooperazione occidentale. Ma non è chiaro come si potrebbe fare concretamente. L’India sta slittando verso l’Occidente con un passaggio progressivo ma non sembra ancora avere trovato la convinzione profonda di un’adesione certa.

In parte ci sono incertezze indiane, in parte forse c’è anche una mancanza di attrattività profonda dell’Occidente verso l’India. L’India sta cercando una sua nuova identità culturale intorno al nuovo rilancio di un induismo ideologico. Esso può essere affascinato dalla svolta a destra di una parte dell’opinione pubblica occidentale, ma manca un disegno complessivo di medio lungo termine, dove gli Usa vogliono approdare dopo avere affrontato il problema cinese.

Inoltre, continua il dubbio che gli Stati Uniti possano usare l’India in modo solo strumentale e di breve termine allo scopo di ottenere un qualche accordo con la Cina e poi voltare le spalle a New Delhi. Né è chiaro come i rimbrotti americani contro alleati tipo Canada, Messico o Danimarca, giochino a New Delhi. Certo c’è un buon rapporto personale tra Trump e Modi oggi, ma se questo si incrinasse ciò potrebbe ostacolare e fermare il rapporto bilaterale?

Questo orizzonte non è importante solo per gli Stati Uniti e i partner designati, è fondamentale anche per l’Europa che oggi è in cerca di una sua identità e missione. I Paesi europei, singolarmente o come Unione, possono cercare di sviluppare una propria politica asiatica, visto che questo è il centro politico del mondo. Ma l’Europa si è assentata dall’Asia da decenni. Ha una storia nella regione di cui deve ancora liberarsi e fare i conti. Non ha energie intellettuali, politiche o economiche per incidere nel breve termine con una sua politica indipendente in Asia. Inoltre, una sua politica indipendente potrebbe urtare i già delicati rapporti con gli Stati Uniti, e portare a poco e niente nella regione. L’obiettivo vero potrebbe essere invece quello di essere vicino e di supporto agli Stati Uniti nello sviluppare una nuova politica in Asia.

Questo potrebbe fare avanzare il credito politico dell’Europa sia in Asia che con gli Stati Uniti. Perché ciò abbia un impatto più reale però dovrebbe essere fatto come Ue, una entità con una gravitas sufficiente a pesare in una regione patria di oltre quattro miliardi di persone. Una politica asiatica dell’Europa poi potrebbe essere di aiuto anche per le scelte Ue nei suoi giardini di casa: nei confronti della Russia e nel Medio Oriente e Mediterraneo.

Mentre scelte unitarie su politiche già coperte dai governi nazionali sono più difficili, scelte unitarie sull’Asia, non coperta da politiche nazionali, potrebbero essere più facili. Da questo costruire poi una politica unitaria su altri terreni potrebbe essere più facile. In tutto ciò, l’Europa dovrebbe mantenere una stella polare: il rapporto solido e solidissimo con gli Stati Uniti.

I leader europei possono avere oggi dubbi su Trump e le sue politiche, però proprio per questo, a maggior ragione, l’Europa deve essere incollata all’America di Trump per esserle accanto in caso di successo o sostenerla e aiutarla in caso di sconfitta. Questa sembra essere la direzione su cui si è instradata la dirigenza dei grandi Paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania. Sforzarsi di andare incontro agli Stati Uniti nella buona e nella cattiva sorte.

C’è ampio spazio di intervento. Il sostegno dell’Ue agli Stati Uniti riguardo all’India o alla Cina potrebbe fare molto per promuovere un’agenda asiatica positiva che potrebbe avere un impatto anche sull’Europa. I prossimi mesi mostreranno se e in che misura ciò accadrà. Se l’Europa non agirà in tal senso, gli Stati Uniti potrebbero subire alcuni contraccolpi, ma i Paesi europei potrebbero soffrire ancora di più.

In Italia, Giorgia Meloni ha capito forse prima di altri la necessità di questo rapporto ombelicale con gli Stati Uniti. Su questo tema però l’opposizione in Italia appare più confusa. Le antipatie, le diffidenze per Trump sembrano prevalere sugli indirizzi politici di lungo termine tra Italia e Stati Uniti. Forse un passo fondamentale dei partiti di opposizione in Italia sarebbe di cercare un rapporto con la nuova amministrazione americana stretto come quello del governo. Ciò forse potrebbe poi avere un altro impatto su tante politiche interne in Italia.


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