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La variabile Trump e Ue debole. Politi legge la crisi tra Serbia e Kosovo

Conversazione con il direttore della Nato Defense College Foundation: “Le proteste in Serbia? Vedo una possibile, anche se non probabile, fine della lunga stagione di Vucic. I Paesi balcanici hanno aspettato più di vent’anni per l’adesione all’Ue e ora non sono più disposti ad aspettare ancora. Il lavoro di Sorensen? Il gioco non è totalmente determinato dall’Unione europea”

“L’arrivo della presidenza Trump da un punto di vista tecnico permette di smuovere le carte sul tavolo da gioco e, quindi, apre prospettive e sponde che prima non erano immaginabili. Ma se l’Europa è già preoccupata per i dazi, figuriamoci se ha voglia di avere una posizione più energica con Belgrado e Pristina”. Questa la diagnosi che affida a Formiche.net Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, secondo cui da un lato la nuova Commissione non ha più forza della precedente e dall’altro la crisi di governo a Belgrado potrebbe portare sorprese.

Il nuovo rappresentante speciale dell’Unione europea per il dialogo Belgrado-Pristina è il danese Peter Sorensen: che situazione trova?

Un dialogo che sta segnando, da più di un anno, il passo dopo un picco di incidenti che è stato uno dei più gravi nella storia della gestione e stabilizzazione della crisi kosovara. Per avere una situazione peggiore bisogna risalire al 2004, quando c’è stato il cosiddetto assalto degli albanofoni ad una serie di proprietà e monumenti serbi: proprio questo è stato quello che i serbi chiamano pogrom. Gli incidenti sono stati estremamente gravi e per vent’anni si è cercato di superarli. Ma con una novità.

Ovvero?

Il nuovo premier a Pristina Albin Kurti non ha più intenzione di giocare il gioco delle vecchie élite kosovare, messe fuorigioco dal Tribunale speciale dell’Aja. Naturalmente Pristina ha insistito sul tema della ripresa in mano della sovranità completa sui quattro Comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo e ciò ha creato una situazione dove, ancora oggi, i sindaci ed altri funzionari sono usciti dalle istituzioni comuni in cui erano rientrati, una situazione estremamente grave. In secondo luogo è interessante notare la temporanea difficoltà del governo serbo davanti alle imponenti proteste interne.

Si riferisce alle dimissioni del premier dopo le manifestazioni di piazza?

Per ora il governo se l’è cavata facendo saltare il primo ministro, come prevedibile. Però la situazione resta fluida, quindi all’orizzonte vedo una possibile, anche se non probabile, fine della lunga stagione di Vucic che a questo punto non sappiamo da chi potrebbe essere sostituito. Non sarei però stupito se fosse sostituito da un leader più intransigente e quindi questo porterebbe ad un ulteriore inasprimento delle relazioni che non verranno normalizzate. Sono consapevole che tale scenario rispecchia il problema di fondo dei Paesi balcanici, che hanno aspettato più di vent’anni per l’adesione all’Ue e ora non sono più disposti ad aspettare così.

Cosa non ha funzionato negli accordi di Ocrida?

Da un lato si è vista una storia di successo come la Macedonia del Nord, ma al contempo l’Ue si è trovata di nuovo bloccata da un Paese europeo: questo non è un buon segno. Dall’altro le varie capitali europee hanno continuato a tirare in lungo la questione dell’ingresso, sapendo benissimo che questi Paesi, tranne forse due, non sono ancora pronti all’ingresso e sapendo benissimo che ancora oggi ci sono cinque Paesi che non ne riconoscono uno: è questo un vincolo molto forte per risolvere il nodo serbo-kosovaro.

In che modo la nuova politica estera americana potrà (o vorrà) influenzare una qualche evoluzione tra Serbia e Kosovo?

In realtà, nonostante i cambi di presidenza, la politica americana temo abbia costruito sottotraccia un consenso bipartisan sullo scambio dei territori: quindi ai serbi i quattro comuni del nord e agli albanesi i tre comuni della valle di Preshevo e in seguito il riconoscimento del Kosovo a chiusura della questione. Però non è detto che dopo lo scambio dei territori veramente le relazioni vengano normalizzate: può darsi di sì, ma può darsi anche di no. Però il ritorno dei fratelli irredenti dei comuni del nord fa comodo, perché nel frattempo c’è qualcosa di concreto ottenuto dopo una guerra persa.

L’Alto rappresentante per la politica estera europea, Kaja Kallas, ha detto che la normalizzazione delle relazioni bilaterali è l’unica via per l’adesione del Kosovo e della Serbia all’Unione europea: come riuscirvi?

La normalizzazione aveva conosciuto un balzo in avanti tattico quando l’Europa aveva seriamente minacciato di tagliare qualunque sussidio. Ho dei seri dubbi che questa Commissione abbia la forza politica di farlo. Parimenti ho dei seri dubbi che i maggiori governi europei, i cinque più grossi, abbiano veramente l’interesse, la forza politica e la volontà di farlo. E comunque, anche tagliando completamente i sussidi, ci vorrebbero tempo e tenacia perché alla fine i due Governi decidano di normalizzare le relazioni. L’arrivo della presidenza Trump da un punto di vista tecnico permette di smuovere le carte sul tavolo da gioco e quindi apre prospettive e sponde che prima non erano immaginabili. Ma se l’Europa è preoccupata per i dazi, figuriamoci se ha voglia di avere una posizione più energica con Belgrado e Pristina. Su quest’ultima capitale non mi pare impossibile un accordo di scambio all’americana e una normalizzazione imposta dalla minaccia di un ritiro della Kfor o anche solo del contingente statunitense, esponendo il Governo kosovaro a una ipotetica minaccia serba, tutta da verificare. Quindi, ribadisco che questa è una Commissione ancora più debole della precedente, che dice delle cose corrette ma poi bisogna vedere se avrà la volontà di farle. E questo è un grosso interrogativo su cui naturalmente tutte le capitali e soprattutto tutti i guastafeste regionali nei Balcani speculano. Speculano perché sanno che con questa presidenza americana comunque ci sono delle aperture (non si sa verso dove). E il gioco non è totalmente determinato dall’Unione europea.


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