I cambiamenti della nuova amministrazione degli Stati Uniti espongono gli europei a grandi rischi per la loro competitività. Impongono ai membri dell’Ue la cruda alternativa tra cooperare più intensamente del passato per affrontare la sfida americana sul suo stesso terreno, oppure indugiare nel loro particolare modello socio-economico, nelle disparità tra politiche nazionali e nei disaccordi. L’analisi di Salvatore Zecchini
Con le sue prime drastiche misure rivolte tanto verso l’interno quanto alle relazioni internazionali il nuovo presidente americano ha dato inconsciamente un grande scossone ai Paesi europei e all’Ue stessa, mettendoli di fronte alla realtà di una dura competizione in termini di competitività, avanzamento tecnologico e crescita. Una chiamata all’azione molto più forte di quanto sia la perdurante stagnazione che attanaglia da anni l’economia europea e che non riesce ad innescare reazioni efficaci nei Paesi europei.
L’abolizione da parte di Trump di molti vincoli a cui sottostanno le imprese americane, l’abbandono degli impegni a una politica energetica volta a contrastare il cambiamento climatico, il rigetto della tassazione minima universale delle multinazionali, l’incuranza verso i trattati internazionali e le regole del Wto, l’imposizione di alte barriere tariffarie ai Paesi con cui aveva stipulato un accordo di libero scambio, il preannuncio di altrettante misure verso l’Ue e i dubbi seminati tra gli alleati sulla fedeltà agli impegni di difesa in comune nel quadro della Nato, sono tutti veri shock che espongono gli europei a grandi rischi per la loro competitività, capacità di ripresa economica, avanzamento tecnologico e sicurezza. Impongono ai membri dell’Ue la cruda alternativa tra cooperare più intensamente del passato per affrontare la sfida americana sul suo stesso terreno, oppure indugiare nel loro particolare modello socio-economico, nelle disparità tra politiche nazionali e nei disaccordi, che nell’ultimo decennio hanno approfondito il distacco dal dinamismo dell’economia americana e di quella cinese.
Nell’Ue gli aspetti più importanti che sono messi in discussione, ovvero alla prova, apparentemente toccano la competitività, il mercato unico e la duplice transizione digitale ed ecologica, ma in fondo investono le politiche verso il sistema produttivo, che poggiano su un sistema socio-economico improntato alle tutele sociali e dell’ambiente. In breve, il confronto aperto si è concentrato sulla politica “industriale” intesa in senso lato, ovvero per un ecosistema in cui l’iniziativa imprenditoriale possa sbocciare agevolmente, tradursi in impresa, crescere, competere sui mercati, innovare e produrre ricchezza per il paese nel suo complesso.
Un primo assaggio del confronto si è avuto allorché la precedente amministrazione americana ha introdotto un massiccio programma di aiuti, l’I.R.A. e altre leggi, per sostenere la ricerca e l’innovazione, gli investimenti nell’avanzamento tecnologico e le infrastrutture. L’Ue e i Paesi membri vi hanno avvertito la sfida competitiva e la necessità di rispondere per non vedere spiazzate le loro imprese nella concorrenza internazionale e per accelerare la ripresa dell’economia. Hanno mobilitato risorse in gran parte già stanziate e mirato a reindirizzare fondi pubblici e capitali privati verso la duplice transizione digitale e verde, e verso la ricerca e innovazione, ma hanno fatto poco per migliorare i loro ecosistemi per l’imprenditoria.
Lo scorso anno sotto l’incalzare delle profonde trasformazioni che le nuove tecnologie stanno apportando alle maggiori economie e del divario crescente di produttività, innovazione e reddito pro-capite rispetto all’America, a cui si aggiungono le crisi di importanti aziende europee, la Commissione e alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, hanno proposto piani di politica “industriale”, che coprono un vasto campo di punti critici, dall’energia al mercato unico e alla difesa.
Le proposte italiane sono condensate nella pubblicazione da parte del MiMit di un Libro Verde per una strategia “industriale”, che sotto molti aspetti raccoglie il testimone dal programma Pnrr in via di attuazione nel quadro dell’intervento europeo NextGenerationEU, varato durante l’ultima pandemia e da terminare entro metà 2026. La proposta lancia una consultazione pubblica con tutte le parti interessate e sarà seguita da un Libro Bianco che nel quadro di un piano fisserà i termini della strategia e delle misure da adottare.
Il punto centrale della proposta è costruire una politica industriale di tipo strategico, in cui lo Stato indirizza ed affianca le imprese nelle scelte strategiche di sviluppo e le aiuta ad accrescere produttività e competitività. Si tratta di un tipo “eclettico” di politica industriale, che non affronta soltanto i casi di fallimenti di mercato con interventi orizzontali a vantaggio di tutti i settori (come nella ricerca ed innovazione), ma include l’orientamento e il coordinamento dei soggetti economici verso missioni specifiche (come l’adozione delle nuove tecnologie abilitanti, o la transizione al verde). Aggiunge una dimensione difensiva del patrimonio manifatturiero e delle competenze industriali attraverso il loro ammodernamento e la protezione dalla concorrenza sleale, con ricorso a interventi settoriali o verticali.
Quattro le missioni principali: il contrasto alla deindustrializzazione, la modifica del sistema energetico con l’apertura anche al nucleare, la diffusione delle nuove tecnologie nelle attività d’impresa, e il perseguimento della sicurezza economica attraverso la riduzione delle dipendenze da risorse critiche e tecnologie provenienti da sorgenti inaffidabili. In breve, una politica per rivendicare una “sovranità industriale”, come è chiamata. Sembra un compito troppo ambizioso per un’amministrazione pubblica carente in specifiche competenze. Si parla, pertanto, di costituire “istituzioni intermedie tra Stato e mercati” che di fatto consentono un apporto di conoscenza del privato al pubblico nella prospettiva di identificare le migliori opportunità di mercato. Il rischio in questa impostazione è che la difesa del sistema esistente prevalga sul salto necessario verso le produzioni del futuro rese possibili dalle “tecnologie abilitanti”.
Il pregio di questa “strategia” sta nel suo disegno onnicomprensivo, che investe l’insieme di produzione, fattori produttivi, regolazioni e istituzioni. Il tentativo è quello di conciliare crescita, transizioni digitale e verde, e sicurezza economica e si intende realizzarlo mediante il dialogo costante pubblico-privato e il coordinamento delle misure all’interno del Governo e con l’Ue. La scelta degli obiettivi strategici appare, tuttavia, come la declinazione di quindici ambizioni generiche, piuttosto che nitide mete da raggiungere, e non tutte sono realizzabili, né tra loro compatibili, né sostenibili (come i campioni nazionali) in mercati in evoluzione rapida verso produzioni sempre più avanzate.
Un impegno è invece chiaramente indicato: preservare la centralità della manifattura e del Made in Italy nel sistema economico, compito che nondimeno andrebbe inquadrato nella tendenza sempre più forte di una stretta integrazione della manifattura con i servizi. All’appello mancano gli interventi per superare alcuni fattori di debolezza: in particolare, l’eccesso di regolamentazione, la modesta dimensione delle imprese e le difficoltà dell’ingrandirsi, le carenze di competenze, l’insufficiente innovazione, le difficoltà di finanziamento, le rigidità della disciplina del lavoro e gli oneri fiscali. È apprezzabile, invece, che si mostri chiara consapevolezza di quasi tutti questi fattori e se ne descrivano i termini, quasi a preannunciare azioni correttive. Questa impostazione ha ricevuto la condivisione di alcuni ministri, come quello degli esteri che è responsabile della politica commerciale verso l’esterno.
Al Libro Verde sono seguite azioni concrete del Governo in sede europea, sotto forma di documenti “non-papers”, diretti a sollecitare la Commissione a modificare alcuni indirizzi di politica “industriale” nel senso auspicato e a introdurne altri in campi strategici. L’attenzione principale è posta sul superamento della crisi del settore auto, per cui si chiede di allentare i vincoli per la decarbonizzazione e le tecnologie ammissibili. Analoga richiesta per l’importazione di prodotti realizzati con tecniche inquinanti per non sottostare all’imposta doganale sulle emissioni di CO2. Altre istanze riguardano l’esenzione delle Pmi da alcuni obblighi di rendicontazione, la deregolamentazione attinente alle normative Ue e un approccio leggero nel disciplinare le attività spaziali e nel definire gli standard (Space Act). La riduzione degli oneri regolamentari sulle imprese dovrebbe, pertanto, applicarsi tanto all’interno quanto a livello dell’Ue.
Nei giorni scorsi la Commissione è passata all’azione presentando al Consiglio e al Parlamento Europeo un piano di politica industriale incentrato sul potenziamento dei fattori di competitività in funzione della crescita e della concorrenza sui mercati internazionali, con estensione alla sicurezza non solo economica. Il Piano è molto ambizioso e ad ampio raggio, tocca molti punti critici, e prevede ben tredici atti legislativi e ventidue tra strategie di settore, piani settoriali, revisioni della legislazione esistente e patti. La tabella di marcia appare altrettanto ambiziosa in quanto concentra molti interventi nel primo trimestre dell’anno corrente (10), con numeri inferiori nel secondo e nel quarto (rispettivamente 6 e 5), e riserva al prossimo anno le misure molto impegnative. Sarebbe peraltro un grande successo se si riuscisse a raggiungere il consenso sui provvedimenti previsti per la prima metà d’anno.
Ma la grande importanza delle aree toccate, la complessità degli interventi, il rischio di un accumularsi di nuove normative in contrasto con l’esigenza di sfoltimento, e le vaste implicazioni sul piano politico e istituzionali lasciano dubitare che si possa definire le misure e portarle ad esecuzione in tempi non lunghi. Nel valutare il Piano vanno distinte quattro componenti: gli obiettivi, i contenuti dei provvedimenti, il metodo per realizzarlo, il sequenziamento degli interventi con il monitoraggio successivo. L’intento della Commissione è duplice: identificare le necessarie modifiche alle politiche da perseguire in comune e stabilire un nuovo modo di cooperare tra gli Stati per ottenere rapidità ed efficacia (chiamata qualità) nelle decisioni. La traccia del dove e come intervenire è derivata dai rapporti Letta e Draghi.
Sul piano degli obiettivi generali si indicano tre direzioni: colmare i ritardi nell’innovare, definire una tabella di marcia congiunta per coniugare decarbonizzazione con competitività, e ridurre le dipendenze eccessive. In particolare, a differenza delle politiche di Trump, si vuole rendere compatibile la lotta al cambiamento climatico con l’incremento della competitività, un compito arduo perché postula progressi nelle tecnologie, grandi finanziamenti e tempi lunghi. Si fa perno su alcuni interventi di tipo orizzontale che comprendono semplificazioni, eliminazione di barriere all’interno del Mercato Unico, una Unione dei risparmi e degli investimenti, investimenti nel miglioramento delle competenze e un migliore coordinamento delle politiche nell’ambito e dell’Ue, e degli Stati. Per definire i particolari si enumera un catalogo di misure di cui si conosce poco il contenuto e la portata, né si definisce il reale ordine di priorità in una moltitudine di proposte importanti, in cui l’unico metro per dedurlo è la cadenza temporale per l’attuazione, che tuttavia presenta un assembramento nei primi due trimestri dell’anno.
Ad esempio, non si parla di eliminare regolamentazioni ma solo di semplificarle, col risultato che si mantiene l’onere sulle imprese che nei mercati internazionali devono competere con quelle estere prive di tali oneri. Non si affronta il tema della tassazione, che contribuisce pesantemente alla disparità di condizioni. Né si menziona il bisogno di una Unione bancaria e di una Assicurazione europea sui depositi, che sono condizioni necessarie per una fluida circolazione dei capitali verso gli investimenti. Si tralascia il problema della relativamente minore redditività del capitale investito nell’Ue rispetto all’America, che lo attrae. Nessun richiamo a rendere più efficiente la pubblica amministrazione nel rapporto con le imprese. Per ridurre il costo dell’energia si limita a intervenire su alcune componenti delle tariffe di rete senza affrontare il nodo dei grandi investimenti necessari per connettere le reti nazionali, condizione per costruire un mercato unico dell’energia.
Di fronte al fabbisogno finanziario stimato in circa 800 miliardi annui per coprire gli investimenti necessari, il Piano riconosce che devono mobilitarsi principalmente i capitali privati, mentre da parte dell’Ue si mettono in campo oltre alla Bei e al Fei, il riorientamento degli indirizzi pluriennali di spesa del bilancio comunitario e gli strumenti dello Step, che coordina le risorse dell’Unione verso le priorità, e l’InvestEU, che offre garanzie su finanziamenti privati. È positivo che si tenda a contemperare il percorso verso il riequilibrio dei bilanci pubblici e del relativo debito con la necessità di rafforzare gli investimenti pubblici a carattere strategico. Allo stesso scopo si prospetta la costituzione di un Fondo per la competitività con l’obiettivo di sostenere le tecnologie di punta e l’attività manifatturiera, coinvolgendo gli investitori privati attraverso la condivisione del rischio dei finanziamenti.
Sul tema caldo della disciplina della concorrenza si riconosce il bisogno di rivedere le regole per consentire alle imprese di raggiungere la grande dimensione richiesta per competere con le gradi multinazionali nei mercati globali. Ma questa flessibilità nel valutare le fusioni societarie è ristretta ai casi d’innovazione in comparti strategici, di resilienza e maggiore intensità del fabbisogno d’investimenti per poter fronteggiare la concorrenza mondiale. Nel Mercato Unico si propone di: a) abbattere le barriere regolamentari; b) estenderlo ai prodotti per la difesa; c) stabilire la preferenza comunitaria nelle commesse ed appalti pubblici; e d) intensificare la cooperazione tra Stati nei progetti d’interesse comune. Ovviamente, questa preferenza andrebbe temperata se i beni d’importazione hanno qualità superiori a quelli europei, come in alcune tecnologie militari. Nel ricorso a fornitori esteri, anche per l’energia, si sottolinea l’utilità di acquisti congiunti di più Stati per spuntare condizioni migliori.
Molte di queste iniziative della Commissione, benché valide, cozzano con radicati interessi dei Paesi membri e con le loro preoccupazioni di perdere capacità produttiva ed autonomia di policy. Ottenerne il consenso postula che tutti ne traggano un beneficio e che i costi di aggiustamento siano equamente ripartiti tra gli Stati mediante aiuti coperti dal bilancio Ue. Questa esigenza è resa ancor più urgente dalla proposta più radicale del Piano, che riguarda il metodo d’attuazione.
La radicalità nasce dal ruolo che la Commissione vorrebbe che le fosse assegnato, di coordinatore degli interventi degli Stati e di verificatore dell’avanzamento. In specie, propone un nuovo Strumento di Coordinamento per la Competitività col compito di allineare e coordinare le politiche e gli investimenti ad entrambi i livelli comunitario e nazionale. Lo strumento dovrebbe operare su specifiche misure, investimenti, riforme complementari e progetti congiunti di più Stati, instaurando una collaborazione con gli stessi. Inizialmente i settori prescelti toccano le infrastrutture energetiche e di trasporto, quelle digitali, progetti di integrazione verticale dell’Intelligenza Artificiale, le biotecnologie e altre capacità di produzione di medicine critiche. Più in generale, la Commissione intende sviluppare con gli Stati una metodologia per individuare, sulla base del potenziale di innovazione, decarbonizzazione e sicurezza economica, i settori o progetti su cui indirizzare gli investimenti e coordinare gli interventi europei e nazionali.
In altri termini, si mira a duplicare l’approccio seguito per il Pnrr o il Next-Generation-EU per avanzare verso un modello di policy e di gestione proprio degli Stati federali. Più che nel passato la Commissione si propone come organo “esecutivo” dell’Unione, con compiti di proposta e di gestione della fase attuativa. È uno sviluppo politico-istituzionale di grande portata, che comporta vantaggi e costi di non semplice misurazione. Quanto sarà ben accolto dai paesi nella fase corrente di risveglio del sovranismo e di incertezza sulle mosse di Trump si vedrà nel seguito delle discussioni, nei contenuti e nei tempi impiegati per raggiungere gli accordi.
Ottenere a Bruxelles il consenso di tutti i membri sul Piano si presenta in realtà difficile e dai tempi non brevi. Nel frattempo sarebbe saggio per l’Italia insistere nel perseguire la sua via verso il rilancio della competitività della Manifattura, del Made in Italy e della sua ricerca nei campi innovativi.