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Spadaro, De Rita e la teologia rapida. La riflessione di Cristiano

La domanda è se solo la Chiesa debba cercare questa via di popolo, se la cultura umanista non debba ricercarla con essa, aprendo un dialogo rapido, un confronto che si allarghi anche ad altre fedi, in questo caso anche velocemente, cioè presto. D’altronde nella rapidità il tempo è anche tiranno, non si può essere in eccessivo ritardo. La riflessione di Riccardo Cristiano

L’ex direttore della Civiltà Cattolica e attuale sottosegretario della Santa Sede al Dicastero per la Cultura, padre Antonio Spadaro, ha avviato un importante dibattito sul quotidiano Avvenire sulla necessità di una “teologia rapida”. Tra i numerosi interventi che lo hanno ripreso è di assoluto rilievo l’ultimo, quello di Giuseppe De Rita, che ne ha condiviso la necessità, aggiungendo alla teologia che serve, questa teologia “rapida”, la qualifica di “sapida” . Ma cosa vuol dire teologia rapida? Rapido rimanda al rapire, il verbo da cui “rapido” deriva. Veloce e rapido non sono sinonimi e qui ci si confronta con ciò che ci rapisce, cattura, cambiando i parametri a cui siamo abituati.

L’esempio citato è quello della lampadina, della corrente elettrica: da allora è stato impossibile non seguire una novità che ha cambiato il nostro modo di vivere. Oggi i social trasformano la nostra capacità di relazione, l’Intelligenza Artificiale il nostro modo di pensare. Siamo dunque nelle rapide e molti intervenuti concordano con Spadaro: siamo nelle rapide, in un letto di fiume scosceso, che repentinamente acquista pendenza, non possiamo restare nei nostri porti sicuri, ma dobbiamo entrare nelle onde, accanto all’uomo, all’umanità d’oggi, alle volte impaurita dalla “rapidità” di questi mutamenti. La teologia attenta ai porti sicuri, agli attracchi tranquilli, quelli che mirano ad acquietarci, non è quella fatta per questi tempi che ci rapiscono, portandoci in ambienti nuovi.

Dunque la teologia deve calarsi tra le onde, navigarle, cavalcarle, nell’oggi, nel farsi di questa trasformazione epocale. Questo discorso apre le porte, a mio avviso, a una teologia pubblica, cioè ad una teologia che parla del mondo che cambia e lo fa standoci accanto subito, a tutti, con il nostro linguaggio, i nostri problemi. Gesù nella tempesta non esortò a mettersi al sicuro, ma ad attraversare le onde, ad andare fino all’altra riva. Così ricordo che Francesco, durante il suo recente viaggio ad Ajaccio, ha detto che è l’ora di archiviare il dissidio tra credenti e secolarizzati, tra cristiani e laici: “Al contrario, è importante riconoscere una reciproca apertura tra questi due orizzonti: i credenti si aprono con sempre maggiore serenità alla possibilità di vivere la propria fede senza imporla, viverla come lievito nella pasta del mondo e degli ambienti in cui si trovano; e i non credenti o quanti si sono allontanati dalla pratica religiosa non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.

Ed è anche alla luce di questo riconoscimento decisivo e forse inatteso che il discorso di un nuovo intervento sui nostri tempi e le nostre sfide, “rapiti” da nuove categorie che vanno affrontate stando nei flutti, nelle onde del presente, meriterebbe di essere impostato al di là degli steccati, ma – per me- nel nome di valori fondamentali per il bene comune che entrambi ricercano. Il discorso còrso di papa Francesco è passato un po’ in sordina pur ricordando dei punti noti del magistero di Giovanni XXIII. Ora la ricerca di una teologia rapida, che prende atto che esistono culture ibride, dinamiche e mutevoli , implica una non esclusività e richiede interlocutori; le culture umaniste lo dovrebbero essere per definizione.

Ecco allora che il discorso del teologo Giuseppe Lorizio, che paragonando la teologia a un nutrimento spirituale ha paragonato lo street food a qualcosa come una street theology, diviene una richiesta concreta di essere insieme; è dai tempi del Covid che Francesco ripete che nessuno si salva da solo. Il rischio, infatti, come ha scritto Giuseppe De Rita, è una “pericolosa tendenza ad una collettiva indifferenza dei valori e dei comportamenti che si realizza in una sorta di astensionismo dalla dinamica ecclesiale e sacramentale, “tralasciandola” a favore di altre più emotive attrazioni. Si è cioè creata una sorta di zona grigia di credenti non presenti”. Queste sue parole mi hanno fatto pensare ai “cittadini non presenti”.

Ed è l’epoca del soggettivismo, scrive con il consueto rigore De Rita, che fa tralasciare anche i riti tradizionali collettivi; “rinviare, tralasciare e omettere”. La soggettività per De Rita oggi è quantitativa (innumerevoli soggetti segmentano i comportamenti e i valori) e qualitativa (soggettivismo etico). La sfida dunque non è imporre, ma ragionare insieme, stando dentro i processi. Di qui arriva a una conclusione affascinante: dopo aver constatato che non basta più parlare ai fedeli consolidati, entrare in ascolto, aprire tavoli per convegni su temi altrui, asserisce che occorre trasmettere alle varie componenti ecclesiali il gusto di stare dentro i processi e vedere che l’idea di identificare il bene con ciò che si desidera non basta più e allora se stare nelle onde della storia non consente di tornare indietro, sulle onde osserva De Rita non c’è la retromarcia, “occorre ritrovare, come Chiesa, una via di popolo, animata da slanci condivisi, per poter indicare alla società, non i “nostri” valori a cui speriamo che torni, ma una strada per crescere seguendo i “suoi” valori, magari scoprendo che in realtà sono anche i “nostri”.

Questo discorso è affascinante e la domanda è se solo la Chiesa debba cercare questa via di popolo, se la cultura umanista non debba ricercarla con essa, aprendo un dialogo “rapido”, un confronto che si allarghi anche ad altre fedi, in questo caso anche “velocemente”, cioè presto. Nella rapidità il tempo è anche tiranno, non si può essere in eccessivo ritardo.


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