Il presidente degli Stati Uniti mette il dossier Gaza sotto stress. Il “piano Trump” per la Striscia potrebbe servire per portare partner e alleati, dal Medio Oriente all’Unione Europea, e a fare di più per concretizzare un progetto di ricostruzione (geopolitica) dell’enclave palestinese e della regione?
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump su un piano per Gaza hanno rapidamente suscitato forti reazioni a livello internazionale. Non ha dato molti dettagli, ma per come l’ha presentata sembra che la sua idea sia quella di espellere con la forza gli abitanti della Striscia (circa due milioni di persone), “prenderne il controllo” e sviluppare un enorme progetto edilizio — come quando era un tycoon osserva velenoso il New York Times — che la trasformi nella “riviera del Medio Oriente”. Trump ha poi più o meno detto che a quel punto la Striscia di Gaza non verrebbe riconsegnata ai palestinesi, ma sarebbe “gestita” da qualcun altro. La rilevanza delle dichiarazioni si lega all’incontro avuto nelle stesse ore con Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano che è stato il primo leader internazionale a essere accolto alla Casa Bianca e che guida un governo composto anche da partiti che non riconoscono i diritti dei palestinesi.
Le dichiarazioni di Trump sono considerate problematiche per diverse ragioni: da un lato, sfidano apertamente il diritto internazionale, dall’altro sembrano difficilmente attuabili date le condizioni regionali. Dopo la guerra a Gaza prodotta dall’assalto di Hamas del 7 ottobre, e portata avanti con estrema violenza da Israele, tutta la regione è in subbuglio e manca una base stabile su cui (ammesso si volesse) intavolare questo tipo di progettazioni. Tuttavia, al di là delle apparenze, queste dichiarazioni potrebbero rivelare una strategia transazionale più complessa, volta a riorientare il ruolo di alcuni attori chiave nel contesto mediorientale — e degli Stati Uniti.
La principale critica al cosiddetto “piano di Trump” riguarda l’assenza di una base legale riconosciuta. Il piano entra in conflitto con normative e accordi internazionali, inclusi quelli che riguardano i territori occupati e i diritti dei palestinesi. Sul piano operativo, le dinamiche di instabilità nella Striscia di Gaza, unite alla frammentazione delle leadership locali e regionali, rendono l’applicazione di soluzioni drastiche altamente improbabile. Poi c’è l’aspetto umano, di primaria importanza: dove dovrebbero andare quelle persone?
Tutti questi elementi suggeriscono che Trump stesso sia consapevole delle difficoltà di implementazione del progetto — che dunque potrebbe anche non essere un “progetto”, ma un’idea da usare come leva. Come dimostrato in passato, l’ex presidente degli Stati Uniti ha spesso utilizzato dichiarazioni forti come strumenti di pressione per rinegoziare posizioni su diversi fronti.
L’ipotesi più plausibile è dunque che Trump stia utilizzando questo piano per ottenere maggior coinvolgimento da parte di attori esterni, specialmente nel mondo arabo e nell’Unione Europea.
Negli ultimi anni, diversi Paesi arabi hanno adottato un approccio distaccato verso la questione palestinese, concentrandosi su priorità nazionali o su relazioni strategiche con Israele. Come per le reazioni di sdegno davanti alle migliaia di morti civili prodotte dalla campagna israeliana per annientare i terroristi di Hamas, il destino dei palestinesi è stato per lungo tempo oggetto di una narrazione retorica più che di azioni concrete. Trump potrebbe puntare a riattivare un interesse per azioni concrete, appunto, attraverso un’idea dal forte sapore di provocazione, spingendoli a intervenire per evitare scenari più estremi?
Allo stesso tempo, c’è l’Ue. L’Europa è tradizionalmente lenta e spesso divisa su dossier complessi come la questione israelo-palestinese. Trump potrebbe puntare a inserire questa crisi all’interno di una più ampia trattativa politica ed economica con Bruxelles, alleato principe americano.
Trump ha per esempio negoziato, in questi giorni, concessioni tariffarie con Messico e Canada attraverso dichiarazioni e misure iniziali apparentemente forti, salvo poi mitigare le sue posizioni in fase negoziale. Una strategia simile potrebbe emergere nel caso di Gaza, con l’offerta di una sospensione di politiche commerciali contro l’Ue in cambio di un maggiore impegno europeo sulla questione mediorientale?
Nonostante la dirompenza delle dichiarazioni, è difficile prevedere ripercussioni profonde sugli equilibri regionali nel breve termine. A oggi, le reazioni appaiono per lo più simboliche o legate a interessi politici interni di alcuni attori. Alcuni investitori o operatori economici potrebbero anche vedere nel dibattito un’opportunità per partecipare a future iniziative di ricostruzione nella Striscia di Gaza, qualora si presentassero condizioni più stabili.
È comunque probabile che la Casa Bianca intervenga rapidamente con una correzione delle percezioni create dalle parole di Trump, presentando un approccio più strutturato per evitare un’escalation diplomatica.
Al di là delle dichiarazioni di Trump, il nodo centrale della questione rimane proprio la mancanza di un progetto credibile per la ricostruzione di Gaza — e magari è sensibilizzare con forza la questione su cui l’americano ha puntato. Le infrastrutture civili sono state gravemente danneggiate dai conflitti, e la popolazione locale continua a subire una grave crisi umanitaria. Senza una leadership chiara e senza il supporto coordinato di attori regionali e internazionali, è difficile immaginare progressi significativi — che sono l’innesco di un meccanismo concatenato a effetto regionale.