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Vi spiego la sfida dell’Italia nell’Artico (pensando a Venezia)

L’Artico è un “nuovo spazio” che si apre ai transiti commerciali, allo sfruttamento di risorse naturali ingenti e di posizioni strategicamente rilevanti, ma anche al conflitto, in assenza di adeguati strumenti di governance. L’analisi di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali alla Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze

Tra le tante dichiarazioni rilasciate dal presidente Trump nei primi cinquanta giorni della sua presidenza quelle relative a Canada e Groenlandia sono apparse particolarmente clamorose e provocatorie. Queste esternazioni, tuttavia, hanno almeno avuto il merito di portare all’attenzione sia degli osservatori che del più vasto pubblico la questione della crescente rilevanza economica, politica e strategica dell’Artico.

La regione artica corrisponde a circa un sesto dell’intera superficie terrestre e i fondali del Mar Glaciale coprono giacimenti immensi di risorse energetiche e minerarie, tra cui terre rare e, in particolare, antimonio, prezioso per l’industria hi-tech. Il solo valore dei giacimenti di combustibili fossili è stimato a circa 35 trilioni di dollari. Sebbene il “deep-sea mining” sia ancora in fase preliminare di sviluppo – nell’Artico è la Norvegia ad aver iniziato attività di questo genere – il significato nonché valore economico della regione è evidente ed enorme.

Sino a non molti anni fa, le condizioni climatiche estreme, proibitive per la vita e le attività dell’uomo, hanno tuttavia fatto sì che l’Artico rimanesse una sorta di “continente incognito”. Il riscaldamento climatico globale – particolarmente sensibile nelle regioni polari – l’attivismo economico e politico-strategico delle nuove grandi potenze mondiali (Cina e India) e, più recentemente, la stessa guerra in Ucraina, hanno determinato un radicale mutamento della situazione.

Il Mar Glaciale Artico è diventato così un enorme spazio aperto alla competizione economica e strategica, di cui è indice una progressiva militarizzazione. L’importanza in ottica strategica della regione polare è data dalla sua collocazione sullo scacchiere globale. Il 53% delle sue coste sono sotto sovranità russa, mentre gli altri 7 Paesi artici sono ormai, dopo l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, membri dell’Alleanza.

D’altro canto, se fino ad oggi per la Cina l’Artico non ha rappresentato un’autentica priorità strategica, è altrettanto vero che, da una decina d’anni, la regione appare nei piani quinquennali e nei documenti sulla sicurezza nazionale e militari. Il progressivo riscaldamento globale porterà, infatti, all’apertura di tre rotte: i Passaggi a Nord-Est e Nord-Ovest e la rotta polare. Le nuove rotte consentirebbero di realizzare il progetto cinese diretto alla creazione di una “Polar Silk Road”, dalle potenziali, straordinarie conseguenze di natura economica, commerciale e politica. Il transito del naviglio commerciale cinese attraverso la regione artica comporterebbe risparmi radicali, in termini di tempi di percorrenza, perciò di costi, nel trasporto dei prodotti dall’estremo oriente verso occidente. Ne beneficerebbero, in particolare, grazie al Passaggio a Nord-Est e alla rotta polare, le merci dirette al mercato europeo. L’apertura delle nuove rotte commerciali produrrebbe comunque conseguenze dirompenti su tutti i principali stretti mondiali: Suez, Panama e Malacca.

Alla luce di queste considerazioni dovrebbe risultare chiara l’importanza per l’Italia di quanto accade nel profondo Nord. Il nostro Paese partecipa peraltro, assieme ad altri 12 e con status di membro osservatore permanente, al Consiglio Artico, di cui naturalmente fanno anche parte gli 8 Paesi artici, questi ultimi a pieno titolo. È la conseguenza della lunga e grande tradizione italiana nel campo delle esplorazioni artiche e della presenza della base per ricerche scientifiche “Dirigibile Italia” nelle isole Svalbard. L’Artico è dunque un “nuovo spazio” che si apre ai transiti commerciali, allo sfruttamento di risorse naturali ingenti e di posizioni strategicamente rilevanti, ma anche al conflitto, in assenza di adeguati strumenti di governance. Un “nuovo mondo”, come fu immediatamente definito, si aprì alla conquista, allo sfruttamento economico e al confronto militare tra le grandi potenze dell’epoca secoli fa: il 12 ottobre 1492, quando Colombo sbarcò sulla costa di San Salvador. Appena due anni dopo, il 7 giugno 1494, sotto gli auspici del romano pontefice Alessandro VI Borgia, venne tuttavia firmato il Trattato di Tordesillas tra Spagna e Portogallo. Il mondo fu diviso in due parti da una meridiana nord-sud (nota come “raja”, ovvero riga o confine), tracciata 370 leghe ad ovest delle Isole di Capo Verde, al largo della costa senegalese. Tutto ciò che sarebbe stato scoperto ad Est della raja veniva attribuito dal trattato al Portogallo, tutto quello ad ovest alla corona di Spagna. Quest’ordinamento giuridico dello spazio globale scongiurò la guerra tra le due potenze e, con successivi aggiustamenti, fu sostanzialmente rispettato fino alla dissoluzione dei rispettivi imperi. Intanto, nel 1493, la notizia della scoperta del mondo nuovo raggiunse Venezia, grande potenza commerciale arbitra nel Mediterraneo. L’aristocrazia cittadina e il Senato della Serenissima s’interrogarono su quali sarebbero state le conseguenze della scoperta, ovvero se la Repubblica dovesse assumere o meno una dimensione oceanica. La risposta è nota.

Da quel momento, perduto il ruolo di cerniera commerciale tra l’Oriente e i mercati europei, iniziò la lenta e magnifica decadenza della città lagunare. Per molti versi, la realtà odierna rispecchia quella di allora. Se il traffico commerciale da e verso l’Estremo Oriente, la Cina, il Giappone e le tigri asiatiche, si indirizzerà ai porti del nord Europa grazie alle rotte artiche, Suez diventerà uno stretto secondario, il Mediterraneo tutto e gli scali marittimi italiani saranno tagliati fuori. Non dimenticare Venezia può essere utile.


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