Il potenziale disimpegno americano sia dall’Ucraina, sia dalla difesa europea, ha sparigliato le carte e spinto alcuni Paesi a chiedere l’immediato smobilizzo dei fondi congelati a Mosca. E anche la Bce vacilla
Qualcosa si muove, in Europa, sul versante degli asset russi. L’ormai più che probabile disimpegno degli Stati Uniti dal Vecchio continente, sul terreno del sostegno all’Ucraina, ha prodotto alcune scosse telluriche che continuano a propagarsi, con tutti gli effetti collaterali del caso. Uno di questi è l’aver spinto nuovamente l’Ue verso il definitivo sequestro e messa in liquidazione degli asset russi messi sotto chiave in Europa, su per giù 200 miliardi. Come noto, ad oggi nelle casse di Kyiv sono finiti circa 3 miliardi sotto forma di assegno staccato da Bruxelles. Soldi generati dai profitti dei beni di Mosca e prima tranche del più sostanzioso prestito da 50 miliardi accordato dal G7 di Borgo Egnazia, lo scorso giugno.
Ora però, l’ora dei tentennamenti sembra essere finita. A frenare sulla monetizzazione degli asset (i beni sono sì congelati, ma non effettivamente espropriati), sono intervenute questioni di diritto internazionale, sposate in particolar modo dalla Banca centrale europea. La quale ha sempre percepito un colpo di mano sui beni di Mosca come un pericoloso precedente in grado di mettere in fuga i capitali e gli investimenti: se l’Europa può effettivamente confiscare e fare suoi miliardi di euro altrui, allora può farlo con chiunque.
Ma ecco che il fronte all’Eurotower rischia di sfaldarsi, sotto la pressione di alcuni Paesi, considerati frugali, ma soprattutto geograficamente al confine con la Russia. Mārtiņš Kazāks, governatore della Banca di Lettonia, consapevole che lo sganciamento americano può condurre l’Europa a una possibile crisi di liquidità in termini di difesa comune e di sostegno all’Ucraina, è stato il primo membro del Consiglio direttivo della Bce ad appoggiare il sequestro totale dei beni, parlando apertamente di “opzione praticabile per aiutare l’Ucraina nella sua lotta per la libertà e contro l’aggressione”.
Parole che di fatto aprono le prime crepe anche nella fin qui irriducibile Bce. Lo shock dell’abbandono dell’Europa da parte di Trump sembrerebbe dunque aver indebolito la posizione di ostruzionismo di molti banchieri. E sempre dalla Lettonia si è alzata un’altra voce, benché fuori dal perimetro della Banca centrale. Quella di Harijs Rokpelnis, alto funzionario dei Verdi e dell’Unione degli agricoltori, membro della coalizione di governo in Lettonia, per il quale l’urgenza del momento richiede che i politici ignorino il consiglio della Bce a non toccare i beni di Mosca.
E anche dalla Finlandia, altro Paese frugale e terra di confine con la Russia, soffia il vento per uno smobilizzo in massa degli asset russi. Arrivando all’Ecofin in corso a Bruxelles, la viceministra delle Finanze della Finlandia, Riikka Purra, ha chiarito come “bisogna procedere a confiscare gli asset alla Russia, per assicurare una posizione negoziale forte all’Ucraina. Molto più cauto il ministro delle Finanze dell’Austria, Markus Marterbauer. “Penso che la confisca sarebbe quasi un nuovo percorso e dobbiamo discutere a livello europeo. Penso che dovrebbe esserci un ampio consenso in questo ambito”. Ma la partita è aperta.