Il disastro del Kafue potrebbe diventare un nuovo catalizzatore per il malcontento anti-cinese, non solo in Zambia ma in tutta l’Africa. La penetrazione di Pechino non è “win-win”, ma predatoria e spesso spregiudicata. Gli effetti ambientali si abbinano a quelli economici sui Paesi coinvolti, intrappolati nella morsa del Dragone
Mentre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, lavora su nuove tariffe sul rame, trasformando il metallo rosso in un ulteriore fronte del confronto commerciale globale, la Cina si trova al centro di una crisi reputazionale in Africa. In Zambia, un’enorme fuoriuscita di acido avvenuta lo scorso mese in una miniera gestita da un’azienda cinese ha contaminato il fiume Kafue, la principale via d’acqua del Paese, colpendo duramente l’ambiente e la popolazione e diventando un esempio di sfruttamento post-coloniale che mal si sposa con la narrazione del win-win con cui Pechino ha costruito la sua diffusione globale – dalla Belt and Road Initiative alle varie Global Initiative del leader Xi Jinping.
Secondo le stime, oltre 50 milioni di litri di rifiuti acidi si sono riversati nel fiume, causando danni visibili anche molto a valle e minacciando di raggiungere il fiume Zambesi, il quarto più lungo del continente. La città di Kitwe, con circa 700.000 abitanti, ha subito un’interruzione dell’approvvigionamento idrico poco dopo l’incidente – subito bloccato per ragioni di sicurezza. Sebbene parte della fornitura sia stata ripristinata, la contaminazione resta una minaccia concreta per la salute pubblica e l’ecosistema.
Il rame è oggi uno dei metalli più richiesti a livello globale, spinto da domanda crescente e prezzi record. Gli Stati Uniti stanno incrementando il consumo, mentre la Cina resta il principale importatore mondiale. È un metallo fondamentale per la costruzione della maggior parte dei sistemi elettronici, ossia per tutto ciò che compone la nostra quotidianità. Lo Zambia è tra i dieci maggiori produttori globali, con il rame che rappresenta oltre il 70% delle sue esportazioni. Tuttavia, il Paese occupa una posizione marginale nella catena del valore: esporta rame di qualità relativamente bassa e dipende in larga parte dalle infrastrutture e dagli investimenti cinesi.
Il settore minerario del rame è storicamente associato a inquinamento e gravi rischi ambientali: metalli pesanti come piombo e mercurio contaminano spesso i terreni. Il caso dell’ex miniera di Anglo American, attiva in Zambia fino al 1974, è ancora oggi al centro di una causa collettiva per avvelenamento da piombo che coinvolge 140.000 persone, per esempio.
Negli ultimi anni, il Paese ha cercato di rilanciare la produzione mineraria, puntando proprio sugli investimenti spinti dalla Repubblica popolare. Tuttavia, le relazioni tra i due sono complesse. Se da un lato la Cina è un partner strategico per lo sviluppo zambiano, dall’altro è bersaglio ricorrente delle opposizioni politiche e di una parte crescente dell’opinione pubblica. Nel 2018, a Kitwe, si verificarono rivolte contro aziende cinesi, sintomo di una diffidenza crescente. Molti cittadini imputano a Pechino anche il peso del debito che ha portato il Paese al default nel 2020, durante la pandemia.
È un effetto che si verifica anche altrove. La Cina cresce di dimensione politica internazionale, diventa un attore globale, si potrebbe dire “imperiale”, e soffre dei contro-effetti di questo imperialismo. In primis, essere detestati da parte dell’Impero. Succede in altre aree dell’Africa, succede in Pakistan e altri ambiti di Asia Centrale e Sud-est asiatico, ma è successo anche in Europa Orientale. Laddove la penetrazione cinese diventa più robusta, Pechino dimostra che quell’armonia nelle relazioni è solo un elemento narrativo e la predazione viene percepita dai locali in quanto tale – e non come un win-win, appunto.
L’attuale presidente dello Zambia, Hakainde Hichilema, è stato per esempio eletto nel 2021 anche grazie alla sua posizione critica verso la Cina. Ma come spesso accade Hichilema ha rivisto le sue posizioni una volta in carica. Il suo ambizioso piano di triplicare la produzione di rame richiede infatti nuovi investimenti, e ancora una volta il partner privilegiato sembra essere proprio Pechino. La Cina ha promesso 5 miliardi di dollari entro il 2031, rispondendo agli sforzi americani, come i 4 miliardi investiti nel “Lobito Corridor” – un progetto che dovrebbe permettere la riduzione dell’influenza cinese attraverso investimenti che coinvolgono anche il G7 e in qualche misura anche il Piano Mattei italiano.
Il disastro del Kafue potrebbe diventare un nuovo catalizzatore per il malcontento anti-cinese, non solo in Zambia ma in tutta l’Africa. Il governo zambiano ha già interrotto alcune attività minerarie e una legge ambientale bloccata da tempo potrebbe ora avanzare più rapidamente. Ma resta il nodo irrisolto: come conciliare la necessità di attrarre capitali esteri con la difesa dell’ambiente e della sovranità nazionale?
Sul fronte globale, anche la domanda cinese di rame potrebbe rallentare. Mentre le fonderie cinesi lavorano a pieno ritmo grazie alla spinta industriale promossa da Xi Jinping, il crollo del settore immobiliare – altro grande consumatore di rame – non mostra segnali di ripresa. Ora però, se la domanda dovesse calare bruscamente, come accadde nel 2008, lo Zambia rischierebbe non solo una crisi ambientale ma anche un disastro economico.