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Le parole di Clinton su Trump non mi convincono. La versione di Arditti

L’approccio muscolare di Trump può certamente essere criticato. Ma è assai difficile sostenere al tempo presente che si possono ottenere risultati concreti in forza delle iniziative diplomatiche

Non mi convince il ragionamento di Hillary Clinton nell’intervento pubblicato sul New York Times e che oggi propone in Italia la Repubblica.

Non mi convince perché il ragionamento che sviluppa l’ex segretario di Stato si fonda su una convinzione, quella secondo cui, diversamente dall’amministrazione Obama, Donald Trump sta disapplicando la teoria dello smart power, combinazione saggia dello hard power basato sulla forza militare ed economica con il soft power della diplomazia.

Ebbene, quello smart power di cui Clinton parla ha condotto a scelte molto discutibili l’amministrazione Obama, prima fra tutte la decisione, esplicita e rivendicata in numerose occasioni, di sostenere le primavere arabe, una delle concessioni politiche più disastrose all’estremismo islamico.

Clinton sa benissimo come sono andate le cose e sa anche altrettanto bene che tutte quelle occasioni per disarticolare i vecchi regimi del Nord Africa e del Medio Oriente sono andate perdute.

E sa anche perfettamente che ciò è accaduto per due motivi fondamentali: per la reazione degli apparati di potere locale che hanno respinto la maggior parte delle aperture democratiche, ma anche perché nell’impostazione originale dei Fratelli Musulmani c’è la totale sopraffazione delle fazioni avverse, ragione per la quale il sostegno a quei movimenti fu un clamoroso errore degli Stati Uniti.

La drammatica riprova di tutto questo ce la dà il dossier tragico della Libia, non a caso l’unico Paese del mondo in cui gli Stati Uniti hanno pagato con la morte dell’ambasciatore John Christopher Stevens (ucciso volutamente l’11 settembre del 2012 a Bengasi, nella data anniversario delle Torri Gemelle), appassionato sostenitore del ruolo attivo della diplomazia.

Occorre anche ricordare che l’invasione da parte russa della Crimea avviene nel 2014, nel pieno della seconda presidenza di Barack Obama, così come è l’amministrazione Biden ad autorizzare la fuga precipitosa da Kabul del 2021, una delle pagine più indifendibili del comportamento occidentale in giro per il mondo.

È troppo presto per ragionare a mente fredda sugli effetti concreti dell’approccio scelto dall’amministrazione Trump: occorre quantomeno attendere gli esiti delle trattative sulla tregua in Ucraina e le evoluzioni a Gaza, due dossier molto difficili sui quali il nuovo presidente ha scommesso gran parte della sua credibilità internazionale.

Clinton sarebbe più credibile nelle sue critiche se partisse ammettendo i fallimenti di scelte compiute dall’amministrazione di cui ha fatto parte, ma non lo fa.

I risultati però sono ben noti ed anche ormai “passati in giudicato“, quindi un sano mea culpa dovrebbe essere il punto di partenza per ogni ragionamento sul presente e sul futuro.

L’approccio muscolare di Trump può certamente essere criticato. Ma è assai difficile sostenere al tempo presente, un tempo nel quale la Cina si comporta come sappiamo con Taiwan e le Filippine, la Russia ha truppe mercenarie in mezza Africa, l’Iran finanzia praticamente tutti i movimenti che cercano di destabilizzare il Medioriente, che si possono ottenere risultati concreti in forza delle iniziative diplomatiche.

L’uso della forza si riaffaccia sul pianale della storia, è doveroso rendersene conto: solo così si può lavorare per la pace.


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