Con “Le assaggiatrici” (2025), tratto dall’omonimo romanzo Premio Campiello 2018 di Rosella Postorino, grazie a una sceneggiatura equilibrata tra dramma e poesia, Silvio Soldini porta sullo schermo la storia di donne cavie del regime. Impeccabile la fotografia dello svizzero Renato Berta, colonna del cinema europeo
La maggioranza del pubblico, inclusi gli studenti universitari che affrontano l’esame di Storia contemporanea, dovrebbe vedere Le assaggiatrici (2025) di Silvio Soldini, tratto dall’omonimo romanzo, Premio Campiello (che non ho letto, e me ne scuso con l’autrice) di Rosella Postorino. La storia, ispirata a fatti veri, tratta di un gruppo di giovani donne tedesche, “in salute”, sequestrate alle loro famiglie, per due volte al giorno, e costrette a mangiare il cibo cucinato per Adolf Hitler – potrebbe esser avvelenato in cucina o tramite gli ingredienti -, quando questi, tra il 1943 e il 1944, ripara sovente nell’est della Germania (Prussia orientale), nel bunker denominato «Tana del Lupo».
Essendo il tema delicato, si rischiava un film troppo ‘saggistico’, la produzione ha affidato la sceneggiatura, oltre che alla presenza di Postorino, anche a quella di Cristina Comencini, Giulia Calenda, Ilaria Macchia e dello stesso regista Soldini. Tale lavoro di équipe ha consentito delle aperture di luce e brevi momenti di serenità (il bagno di alcune delle donne nel lago durante la pausa; un pranzo improvvisato a casa di una di loro nel giorno in cui il pranzo delle assaggiatrici salta per il non arrivo del Führer), ad un andamento dettato, per obbligata scelta drammaturgica, al kammerspiel.
La protagonista è la venticinquenne Rosa (Elisa Schlott: mai caricata nella recitazione), la «berlinese», anche lei reclutata a forza tra le assaggiatrici, appena giunta in paese per aiutare gli anziani suoceri. Suo marito, Gregor, con cui ha vissuto un mese, è sul fronte russo. Ogni sera prima di dormire, nella cameretta, stringe la sua immagine al petto.
Le assaggiatrici sembra, a prima vista, un dramma semplice e lineare, ad un piano: ossia, il rischio quotidiano di morire mangiando. In realtà, attraverso questo ‘rito’, cui sono obbligate, con terrore e violenza, queste nubili, vedove di guerra, sposate, inclusa una finta ariana, l’ebrea Elfriede (Alma Hasun: sa scrivere con gli occhi), lo spettatore entra nelle tragedie quotidiane, personali, di ogni donna.
Chi vive uno sdoppiamento di coscienza inatteso è Rosa che, volontariamente, si unisce, di notte, con Albert (Max Reimelt: un ruolo, da “io diviso”, non semplice), il tenente delle SS, nel granaio della casa dei suoceri. Lui se ne innamora e, in un momento di intimità, le rivela che non ha retto alle morti cui ha assistito nei campi di concentramento, come altri suoi colleghi, ed è stato trasferito nel posto che ora occupa. Che non «puoi tirarti indietro quando sei nel meccanismo della violenza».
Siamo alla fine del 1944. Il reparto delle SS deve ritirarsi davanti ai russi che avanzano da Est. Albert non rinuncia a individuare Elfriede, che Rosa sta facendo scappare con sé, sull’unico treno, grazie al lasciapassare, “a voce”, datole dallo stesso Albert. L’uomo, scoperta dalla banchina della stazione Elfriede, insieme a Rosa, nel vagone delle infermiere, appena assunte dal medico, le insegue, anche quando le due scendono e tentano la fuga sui binari posteriori della stazione. Albert gli corre dietro con la pistola in pugno: Rosa, copre con il suo corpo Elfriede impedendo ad Albert di sparare. Ma Elfriede si stacca da Rosa, scappando, per salvarla, e offrire le spalle ad Albert. Rosa è ora avvinghiata, sui binari, al corpo esanime di Elfriede, una Pietà tutta al femminile, grida e piange. La raggiunge Albert, la stacca con forza dal corpo di Elfriede e la getta sul treno, in movimento.
Soldini è forse uno dei pochi registi italiani (accostabile ad autori internazionali quali Julien Duvivier) in grado di muoversi con delicatezza e ricerca tra diversi generi, dalla commedia al dramma, con un raccontare nitido, senza intellettualismi coreani nel montaggio. Maestro nel dirigere gli attori, non abusa mai dei movimenti di camera. Questa sa essere razionalmente nervosa (a motivo), con tagli brevi, nel momento in cui deve mostrare la tensione e i momenti di crisi delle donne durante il ‘mangiare’. O mobile quando deve seguire in carrello Rosa (attratta dalla musica lirica) tra gli uffici degli ufficiali; e, infine, sincopata durante la fuga finale. Una m.d.p. che sa anche calmarsi, come una farfalla stanca di volare, e rivelarci un quadro inopinatamente impressionista, nella scena del lago (nuvole bianche sparse in cielo, sole, riflessi sull’acqua: impeccabile la fotografia di Renato Berta, colonna del cinema europeo: auguri per i suoi ottanta anni). Sino a diventare riflessiva nella cameretta di Rosa, ove annuncia, senza dirlo, il silenzioso dramma interiore della venticinquenne; o, infine, nei momenti di amore fisico, passionale, tra carnefice e vittima.
Le solitudini delle donne, mentre attendono nel cortiletto della caserma tedesca che passi il tempo tra i due pasti, i silenziosi ritorni a casa di Rosa, gli sguardi prima ostili e poi carichi di amore tra Rosa ed Elfriede, come le sequenze finali delle donne terrorizzate al pensiero degli stupri dei russi “liberatori”, sono affidati alla drammaticamente asciutta, priva di sbordature sentimentali, musica di Mauro Pagani.
La letteratura concentrazionaria (ce lo ha ricordato Eraldo Affinati), e il cinema (partendo da Pasažerka, 1964, di Andrej Munk e Witold Lasiewicz) hanno raccontato il verificarsi di capovolgimenti sentimentali, odio versus amore: Rosa, innamorata di Gregor, ora al fronte, improvvisamente, fa l’amore con lo spietato Albert. Forse per rimuovere il pensiero di Gregor dato ora per disperso, per farlo vivere attraverso il nemico.
E bene fa la sceneggiatura a saltare le motivazioni “razionali”. Accade. Semplicemente. Come anche il tornare in sé di Rosa, quando capisce che l’amore, su soggetti che vivono gestiti dalla malvagità, è impotente, non può fare miracoli: «Tra noi è finita».