“Un progresso verso una pace sostenibile e giusta per l’Ucraina resta improbabile”, commenta Rafael Loss, policy fellow dell’European council on foreign relations. “Ma la lusinga di Putin potrebbe avvicinarlo a ottenere con la diplomazia ciò che non riesce a conquistare militarmente: controllare il destino dell’Ucraina come Stato e come nazione”. Il compito di far accettare a Mosca una mediazione è tutto in mano a Donald Trump
Nelle prossime ore, l’Arabia Saudita torna crocevia di una diplomazia internazionale. Mentre in Medio Oriente cresce la tensione regionale, le delegazioni di Russia e Ucraina si recheranno nel regno per incontrare — separatamente — funzionari statunitensi, in quello che appare come un nuovo formato negoziale ibrido, lontano dai canali multilaterali europei e più vicino a una dinamica bilaterale spinta da Washington. L’amministrazione Trump ha una necessità: risolvere velocemente il dossier dell’invasione russa dell’Ucraina, perché rappresenta una problematica nel tentativo di normalizzazione delle relazioni con Mosca.
Tentativo spiegato dall’inviato speciale Steve Witkoff – che doveva occuparsi di Medio Oriente per conto di Donald Trump, ma è finito a seguire ogni dossier negoziale delicato. In un’intervista con l’anchorman alt-right Tucker Carlson ha messo ben in chiaro che un rapprochement con la Russia è in atto, e per dirla come il politologo Ian Bremmer “a must watch” per gli europei – acquisire consapevolezza di quanto sta accadendo. E poco è importante se Witkoff, e Trump stesso, accedano a componenti della narrazione propagandistica russa, parte di un’ampia campagna ibrida organizzata da anni da Vladimir Putin.
Certi cedimenti, se non dettati da inclinazioni naturali, potrebbero essere parte della volontà strategica superiore: lavorare con Mosca per non farla finire totalmente in mano a Pechino, vittima di una predazione grand-strategica che porterebbe la Russia a essere uno junior-partner nucleare cinese. Compito complesso, come spiegano i propagandisti cinesi sul Global Times, ma su cui Donald Trump starebbe investendo adesso le sue energie. Stante tale scenario, diventano accettabili vari livelli di concessioni a Putin, pur di non farlo scarrellare definitivamente verso Xi Jinping. È una questione non nuova, già parte delle direttrici del primo mandato, solo che adesso è lo stesso presidente americano (e i suoi uomini) a parlarne più o meno apertamente. È questa la consapevolezza necessaria per guardare alle dinamiche saudite – consapevolezza necessaria che tocca per primo l’Unione Europea.
Due incontri distinti, un solo attore centrale
La presenza parallela delle delegazioni russa e ucraina, pur senza un confronto diretto, segnala in effetti il tentativo dell’amministrazione Trump di reimpostare il dossier ucraino secondo nuove priorità. A guidare la missione russa sarà Grigory Karasin, presidente della Commissione Esteri del Consiglio della Federazione, affiancato da Sergei Beseda, figura chiave dell’intelligence russa. Sul tavolo, tra le altre cose, un piano per garantire la sicurezza della navigazione nel Mar Nero (questa sì una priorità americana, come raccontano gli interessi per iniziative come la Three Seas) e l’ipotesi di una tregua negli attacchi alle infrastrutture energetiche.
“Spingendo per colloqui bilaterali, Putin mira a usare gli Stati Uniti come leva contro l’Ucraina e l’Europa”, commenta Rafael Loss, policy fellow dell’European Council on Foreign Relations, analizzando il quadro politico. “La versione russa del readout [della telefonata tra Trump e Putin] insinua un’agenda più ampia: dividere l’Europa in sfere d’influenza e, magari, avviare collaborazioni estrattive sulle terre rare”, aggiunge l’analista.
Zelensky a margine, ma non escluso
Volodymyr Zelensky ha reagito con fermezza alla prospettiva di un negoziato sul proprio futuro senza un ruolo diretto dell’Ucraina, cercando innanzitutto la sponda europea. Europa che nonostante tutto resta un’attenzione di Mosca (non fosse altro perché una normalizzazione potrebbe riaprire le forniture di gas, cosa che alcuni Paesi europei non detesterebbero, avendo sposato de-risking e sanzioni per ragioni di ordine superiore). Per questo motivo, anche la delegazione ucraina è stata accettata in Arabia Saudita per questo nuovo round di incontri con rappresentanti statunitensi.
Per Washington è anche una forma di leva negoziale: non è un caso se dopo la telefonata con Putin, che a quanto pare non è andata nel modo auspicato, Trump abbia sentito Zelensky raccontando poi che la conversazione è stata “ottima”, e che “non siamo mai stati così vicini alla pace”. Un bilanciamento che usa anche Zelensky, che la presenza di “team tecnici” al negoziato saudita, ha sottolineato però che le centrali nucleari restano sotto sovranità ucraina, compresa quella di Zaporizhzhia. Il riferimento va proprio alla recente telefonata con Donald Trump, che avrebbe accennato alla possibilità di un “possesso” statunitense delle infrastrutture nucleari, un’idea respinta con decisione da Zelensky: “Abbiamo 15 reattori in funzione. Tutto questo appartiene al nostro Stato”.
Il fragile equilibrio della tregua
All’incontro di Riad si arriva con una proposta chiara: gli Stati Uniti vorrebbero intanto un cessate il fuoco di 30 giorni, accettato da Kyiv quasi senza condizioni. Mosca ha invece posto condizioni dure: la fine dell’invio di armi e intelligence occidentale e la sospensione della mobilitazione ucraina — richieste che, secondo Rafael Loss, “lascerebbero l’Ucraina vulnerabile a un nuovo attacco russo”.
Il ruolo del presidente americano resta il vero ago della bilancia. “Trump ha molte carte in mano, ma le sta usando più per mettere pressione sull’Ucraina che per forzare concessioni da Mosca”, osserva ancora Loss. “Potrebbe aumentare l’assistenza militare o rafforzare le sanzioni, ma preferisce cercare una normalizzazione con la Russia. L’Ucraina, in questo quadro, appare più un ostacolo che un alleato strategico”.
Accordo ancora lontano?
Mentre la diplomazia lavora, il conflitto continua. Mosca ha denunciato nuove offensive ucraine e attacchi con droni, mentre Kyiv ha accusato la Russia di aver lanciato missili e droni contro le infrastrutture ferroviarie nella regione di Dnipropetrovsk. Sullo sfondo, il cessate il fuoco resta fragile, e l’ipotesi di un accordo di pace duraturo ancora remota.
“Un progresso verso una pace sostenibile e giusta per l’Ucraina resta improbabile”, conclude Loss. “Ma la lusinga di Putin potrebbe avvicinarlo a ottenere con la diplomazia ciò che non riesce a conquistare militarmente: controllare il destino dell’Ucraina come Stato e come nazione”.
In questo, va evidenziato una passaggio della conversazione di Witkoff con Tucker: l’inviato americano dice che “ci sono stati tutti i tipi di discussioni sulla possibilità che [gli ucraini] possano comunque ottenere la cosiddetta protezione dell’Articolo 5, possano in qualche modo averla dagli Stati Uniti e dalle nazioni europee senza essere membri della Nato”. Witkoff dice “su questo la discussione sia aperta”: una discussione che incrocia la complessa, ma evidentemente funzionale, proposta avanzata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
In mezzo a una serie di concessioni pragmatiche, l’Ucraina troverebbe così la maggiore forma di garanzia possibile. Far accettare la Russia è il compito difficilissimo in mano a Donald Trump. Qual è il costo, mentre Pechino cerca di mettersi in mezzo sulle garanzie?