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Ecco perché da solo il Terzo settore non basta. Il commento di Monti

Pur plaudendo al riconoscimento sempre più forte che il terzo settore è riuscito ad ottenere nel tempo, è oggi essenziale immaginare delle soluzioni che consentano di comprendere quando questo settore genera un valore aggiunto altrimenti irraggiungibile, e quando invece si sostituisce ad azioni che potrebbero concretamente creare ricchezza

Il Terzo settore in Italia riveste un ruolo estremamente importante: con le sue iniziative è storicamente associato alla creazione di servizi e, più in generale, alla produzione di un’offerta che il settore pubblico non riesce a garantire. Nei decenni, questa “primigenia” funzione ha fatto sì che il Terzo settore si espandesse e pervadesse quasi tutti gli aspetti della vita sociale: dall’ambito formativo a quello sociale, dal settore culturale a quello sanitario, passando per l’innovazione, la tecnologia, lo sviluppo immobiliare, la rigenerazione urbana, la creazione di posti di lavoro.

Se guardiamo a quanto si sia esteso il modello del Terzo settore risulta dunque evidente che l’insieme di strumenti di cui si compone lo hanno reso particolarmente efficace, in termini darwiniani, all’interno del nostro contesto sociale. Eppure, con le sue differenze sempre più labili rispetto ad altre modalità ascrivibili alla libertà d’iniziativa individuale e collettiva dei cittadini, anche il Terzo settore ha dei “limiti”, ed è essenziale tenerne conto se non si vuole che l’abuso di questo strumento possa presentarsi come un boomerang per la nostra collettività.

Così, mentre da Bruxelles arriva il via libera alle misure fiscali specifiche per il Terzo settore e per l’economia sociale, sul Corriere della Sera vengono pubblicati i risultati di quella che può essere definita una parziale mappatura dei beni abbandonati, auspicando un ruolo sempre più centrale per la valorizzazione di questi spazi da parte del Terzo settore, citando anche impegni erogativi importanti in questo senso, come quello di Fondazione con il Sud e di altre Fondazioni ed istituti di credito.

Si tratta, senza dubbio, di iniziative importanti, ma che se non vengono “circoscritte”, rischiano di spingere verso il basso l’economia legata a specifici settori, o di estendere sempre più la distanza tra iniziative che, in realtà, mirano a coprire la stessa tipologia di bisogni.

A differenza del comparto imprenditoriale, infatti, le attività degli enti del Terzo settore sono spesso incentivate da fondi di natura pubblica (vale a dire risorse che per propria natura appartengono a tutti i cittadini), con ciò determinando un’esigenza, negli ultimi anni non sufficientemente sostenuta, di perimetrazione delle attività di cui il Terzo settore è corretto si occupi, non per una strenua difesa dell’autonomia privata e del profitto, ma per il concorso all’effettivo benessere dei cittadini nella loro totalità.

È essenziale, infatti, che il Terzo settore venga sostenuto, stimolato ed incentivato nella misura in cui esso agisce come agente complementare al, e non concorrente del, sistema imprenditoriale. Ciò perché la sovrapposizione di agenti determina, di fatto, una condizione che lede il benessere collettivo piuttosto che incrementarlo.

Un esempio concreto può aiutare a comprendere meglio il perimetro della riflessione, e il contesto culturale, in questo senso, può rappresentare un valido campo di indagine. Si immagini dunque di voler avviare un progetto di riqualificazione di uno spazio abbandonato in qualità di privato imprenditore o in veste di una società di capitali: l’obiettivo è la rifunzionalizzazione dello spazio, e lo sviluppo all’interno dello stesso di un’economia di servizi, che spaziano dalla creazione di un percorso espositivo, alla creazione di servizi ricettivi e di ristorazione, fino alla definizione di percorsi di sviluppo imprenditoriale legato alle industrie culturali e creative, con postazioni di co-working, corsi di management, servizi di matching con potenziali investitori.

Un’azione di questo tipo, condotta sotto il profilo del profit, potrebbe incontrare non poche resistenze rispetto, ad esempio, a quanto possa avvenire attivando la medesima progettualità ma implementandola nell’alveo del Terzo settore: e non solo in termini di incentivi diretti (finanziamenti, partecipazione pubblica o di Fondazioni di Origine Bancaria), ma anche in termini di incentivi indiretti (fiscalità di vantaggio).

In entrambi i casi ci sarebbero dei servizi forniti gratuitamente (come lo spazio espositivo e una quota parte delle postazioni di co-working), e altri servizi che verrebbero erogati dietro un pagamento dei diretti beneficiari (postazioni di co-working in modalità di abbonamento, servizi plus, servizi di ristorazione, servizi ricettivi, ecc.).

Eppure, per il medesimo progetto, è molto più conveniente per una società costituire una nuova realtà del Terzo settore, e avviare tali azioni mediante quest’ultima, tanto più che la clausola di mancata distribuzione degli utili non rappresenta più, in un’economia sempre meno in crescita, una concreta penalizzazione. Forse su questo punto è necessario fare un inciso: esistono moltissime società, in Italia, che a fronte di un fatturato che oscilla tra 1 e 2 milioni annui, registrano “utili” che al confronto sono davvero irrisori e che talvolta ammontano a meno di 30 mila euro. Ipotizzando che una di tali società abbia 5 soci, di pari quota, e ipotizzando quindi una distribuzione degli utili al termine dell’anno, ciascun socio percepirà un totale di € 6.000 lordi, a cui va sottratto il 26% di tassazione che, senza considerare altre tassazioni incrociate, porterà l’utile percepito a 4.440€ netti. Questa condizione è spesso associata alla partecipazione da parte dei soci alle attività aziendali: se soci e lavoratori coincidono, allora la retribuzione del socio non avviene attraverso gli utili ma attraverso il pagamento diretto delle prestazioni.

Condizione che, in sintesi, si verifica in modo identifico all’interno del Terzo settore.

La conversione della produzione di servizi da appannaggio imprenditoriale ad appannaggio del Terzo settore, tuttavia, tende a ridurre a livello aggregato la ricchezza non prodotta dal proprio lavoro. Ciò ha delle implicazioni importanti: la prima è che il “capitale” di rischio tende ad essere meno presente in alcuni settori, e la seconda che, riducendo in modo consistente la ricchezza potenzialmente proveniente dai propri investimenti, si riducono parallelamente gli investimenti potenziali all’interno dell’intera economia.

In altri termini: se non posso guadagnare da un investimento in cultura difficilmente investirò del denaro. E se non investo il mio denaro in cultura, non produrrò maggiore ricchezza.

Guardando al settore nel suo complesso, poi, un’affermazione completa del Terzo settore nel comparto culturale esclude, di fatto, la possibilità di sviluppare azioni di investimento, inquadrando gli afflussi di denaro esterno come erogazioni liberali, il cui valore implicito non è dettato dalla genesi di maggiore ricchezza, ma da un riconoscimento di un credito nei confronti dell’erario, che è di conseguenza un’azione attraverso la quale la collettività si priva di parte delle proprie risorse.

La crescita del Terzo settore è corretta. Ed è essenziale in tantissimi settori in cui, in assenza del Terzo settore, si generebbero delle gravissime lacune: si pensi a tutte quelle iniziative volte a sostenere le persone in difficoltà sociale o sanitaria, o a tutte quelle azioni in contesti disagiati in cui sono proprio gli enti del Terzo settore a generare un valore culturale, sociale, e umano che le imprese non sarebbero interessate a produrre mentre lo Stato non ne sarebbe in grado.

È però vero che ci sono settori in cui quello che si determina è una sovrapposizione non corretta, che disincentiva la produzione di ricchezza e, di conseguenza, l’affluenza di ricchezza, andando a creare una condizione di tendenziale dipendenza dal settore pubblico e dal sistema erogativo (dipendenza che andrebbe in ogni caso arginata per ragioni che il nostro Paese conosce bene), e un progressivo disinteresse da parte di un mondo, che invece, vorrebbe ben investire in azioni di natura culturale.

Si pensi alla grande ricchezza che in Italia è rappresentata dai piccoli investitori, vale a dire persone e famiglie che potrebbero decidere di investire una quota della propria disponibilità in una dimensione dell’economia reale che, oltre a generare dei ritorni economici per l’investitore, permetta di attivare nuovi posti di lavoro, nuova ricchezza, e servizi che “fanno bene” alla collettività.

Pur plaudendo al riconoscimento sempre più forte che il Terzo settore è riuscito ad ottenere nel tempo, è oggi essenziale immaginare delle soluzioni che consentano di comprendere quando il Terzo settore genera un valore aggiunto altrimenti irraggiungibile, e quando invece si sostituisce ad azioni che potrebbero concretamente creare ricchezza.


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