Il Presidente della Repubblica Mattarella ha detto che commerci e interdipendenza sono elementi di garanzia della pace, accusando la politica dei dazi, definendola una forma di chiusura dei mercati dal sapore incomprensibilmente autarchico. L’accelerazione dell’autarchia degli stati, è avvenuta anche in occasione di due avvenimenti globali drammatici. L’opinione di Maurizio Guandalini
Prima la pandemia. Il mondo fermo. Le relazioni economiche tra Paesi bloccate. I rapporti di fiducia e di amicizia, il basamento del business (si pensi quanto conta in Cina il guanxi), frutto di lavoro costruttivo nel corso degli anni, in un tratto cancellati. La ripresa poi è stata abbastanza rapida perché il continente aveva preservato una struttura globale già collaudata ed efficacie. Il secondo avvenimento che ha provocato un rallentamento della progressività globale è avvenuto con la guerra in Ucraina.
E il successivo licenziamento di pacchetti di sanzioni verso la Russia. Le sanzioni hanno provocato danni all’economia putiniana ma ne hanno fatti altrettanti, se non di maggiori, diversi da paese a paese – in rapporto all’esposizione commerciale e alla dipendenza energetica, dentro l’Unione europea, non avendo creato delle reti protettive per evitare il peggio che c’è stato. Un cammino lungo tre anni che hanno instillato una stretta colleganza tra la divisione del mondo e la sua nuova ricomposizione geopolitica quindi geoeconomica e la progressiva autarchia degli stati, in particolare dentro l’Unione, che ha generato poi la crisi economica della Germania e dietro degli altri paesi, tra cui l’Italia. Si osservi com’è venuto meno l’impianto solidaristico di fronte al problema, ancora di oggi, dei costi di gas e luce. Ricaricati sulle finanze dei cittadini.
Addirittura vi sono stati europei che ne hanno approfittato, rivendendo a prezzi stellari il gas, traendo fior di profitti. Questo perché l’Unione europea non è uno Stato che ha stessa politica fiscale ad esempio. O quella della concorrenza. Sono dei dazi, delle barriere pure questi intralci che drogano la competitività tra stati europei (rendendoli autarchici e quindi sovranisti) che generano differenze marcate sia nella creazione di valore sia nel vantaggio competitivo. Accenno veloce all’incidenza delle delocalizzazioni industriali, addirittura possibili a qualche centinaio di chilometri dall’Italia, in altri stati appartenenti all’Unione europea. Lo stesso si può parlare dell’incidenza dei paradisi fiscali in paesi nell’inner circle del Vecchio Continente (Le lavanderie dei paradisi fiscali, a cura di M. Guandalini e M. T. Terribile, Sperling &Kupfer Editori).
E nel pellegrinaggio autarchico dell’Europa dentro il conflitto russo-ucraino non si è visto nemmeno l’America di Biden (che poi ha obbligato l’Unione europea a mettere dazi verso la Cina ben prima del gran daffare di Trump) a dare una mano, ad esempio a fornirci gas liquido a prezzi di favore. L’Italia ne ha patito. E continua soffrire. Senza che mai l’Europa attuasse provvedimenti che colmassero questo gap. Che va a incidere sulla stessa competitività tra gli stati. Sulla produzione industriale. Sui salari. E via via la cordigliera lunga che attraversa l’economia. Il solo motivo che è prevalso è il fai da te. Arrangiarsi.
Trovare nuovi stati per l’approvvigionamento di gas ma in un contesto di mercato globale azzoppato vista l’esclusione della Russia. E’ così vero e realista questo ragionamento che oggi alcuni paesi europei stanno attendendo la firma dell’accordo di pace tra Russia e Ucraina per ritornare a riprendere relazioni con il gas russo. Il solo modo per registrare un abbassamento del costo del gas è prioritario che il mercato ridiventi globale, senza alcun paese escluso perché le barriere sono il contrario della libertà dei commerci garanzia di una crescita degli stati e la possibilità concreta di far uscire dall’indigenza molti popoli. In parte è il motivo del fallimento delle primavere arabe, ovvero l’incapacità di fare riforme economiche in grado di integrarsi con l’economia globale e combattere il fondamentalismo islamico (Med-Golfo, la terra promessa del business, a cura di M. Guandalini, Mondadori Università).
Che, al contrario, alcuni paesi del Golfo (Africa&Gulf, a cura di M. Guandalini, Mondadori Università) sono stati in grado di attuare. Insieme all’Occidente che ha recepito quanto fosse indispensabile comprendere come la risoluzione del fattore religioso in economia determinasse il buon fine delle relazioni commerciali e il dialogo tra nazioni profondamente diverse. La piazza di Londra è diventata la più importante nel sviluppare l’islamic banking (in Italia ci sono stati tentativi lasciati a metà) e la presenza di fondi sovrani (a Milano il fondo del Qatar ha acquistato l’intero skyline).
Di recente il nostro Paese ha siglato importanti accordi con l’Arabia Saudita scavallando la discussione sviluppata in Occidente sull’opportunità di relazionarsi con un paese che uccide i giornalisti dissidenti (si ricordi la campagna fatta contro Matteo Renzi). Ma le relazioni commerciali come strumento di pace lo sono state anche durante la guerra fredda. La presenza italiana nell’Unione Sovietica è datata già dagli anni Cinquanta e Sessanta (lo stabilimento Fiat di Togliattigrad).
Poi si è allargata con l’era Gorbaciov e la nascita di forme di cooperazione stretta (joint venture, società a capitale misto) tra imprenditori occidentali e referenti dello Stato sovietico in zone economiche speciali (Guida al business nell’Europa dell’Est, di M. Guandalini, pref. U. Agnelli, Sperling & Kupfer Editori). Il medesimo svolgimento si è registrato in Cina. Non possiamo prevedere gli sviluppi della politica trumpiana dei dazi. Sicuramente se fatta unilateralmente stato per stato dell’Unione sarà una botta mortale per l’Europa. Non farà altro che colpire la parte dove il Vecchio Continente è più debole, l’assenza di una fisionomia di Stato con una sola politica industriale, fiscale ecc.
Questa comunque sarà sempre una fragilità che rimarrà in Europa perché gli interessi competitivi delle nazioni non sono difendibili allo stesso modo. Ricollegandoci al moto sanzionatorio innescato da Bruxelles verso la Russia durante la guerra in Ucraina, ci basta leggere quanto hanno patito le imprese italiane nell’interscambio commerciale, senza avere scudo difensivo. Una zona d’ombra con lampi di luce innescati dalla solita intraprendenza italica dell’arrangiarsi con triangolazioni attraverso paesi che hanno favorito comunque il transito dei prodotti italiani.
Ma non è questo un sano strumento del commercio internazionale, in uso quando le regole del fai da te prevalgono per colpa anche dei vuoti che la politica lascia nel suo cammino. E’ da oltre due anni che la riforma del Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio è bloccata per colpa dei veti degli Stati Uniti (era Biden). Questo ci dice che impera una certa selvaggeria che può essere frenata se prevarrà il principio cardine della globalizzazione (Il prossimo scenario globale, di Kenichi Ohmae, cura ed. italiana e prefazione di M. Guandalini, Etas/Rizzoli) del dialogo tra gli stati, tutti gli stati, senza richiesta di pezze giustificative morali ed etiche. I dazi sono paratie superabili con la ragione e il dialogo, con la cooperazione e il mercato, la solidità del sistema paese delle singole nazioni, gli unici ingredienti che possono ben contrastare forme diffuse di autarchia.