Oggi il rischio nei Balcani si chiama Cina, dove sono in essere i contratti Bri che spesso includono clausole che consentono ai Paesi di cedere asset, come i diritti su un porto marittimo, invece di rimborsi in contanti sui prestiti. Tali condizioni hanno portato molti soggetti a paragonare il programma in questione a una vera e propria trappola del debito. Uno scenario che è retrocesso “comunicativamente” in secondo piano a causa della guerra in Ucraina, ma che deve procedere politicamente di pari passo alla cosiddetta riunificazione dei Balcani, obiettivo europeo a cui anche l’Italia lavora
Il 24 marzo 1999 gli attacchi aerei in Jugoslavia contro Milosevic. Oggi, a distanza di 26 anni, il quadro complessivo del costone balcanico presenta luci e ombre, con alcuni Paesi che hanno realizzato oggettivi progressi in chiave allargamento Ue come l’Albania, altri che sono alle prese con tensioni più o meno sopite come il dossier Kosovo, altri ancora che devono gestire tensioni e possibili capovolgimenti di fronti come la Serbia. Nel mezzo ci sono da registrare le pretese dei super player esterni (come la Turchia) che puntano ad avere voce in capitolo nella macro regione, dove convivono le aspettative europeiste accanto alle pulsioni nazionaliste o, quantomeno, più indipendentiste.
Qui Serbia
“O io o il caos” sembra essere il messaggio del presidente Vucic dopo le manifestazioni di protesta che si sono moltiplicate per l’incidente ferroviario di Novi Sad che a novembre causò la morte di 16 persone. Da quel momento (e fino a pochi giorni fa) le piazze del Paese hanno visto sfilare studenti e cittadini, tutti uniti nel chiedere conto al governo. Due giorni fa Vucic sul proprio profilo Instagram ha lanciato un appello alla “resistenza popolare” contro le proteste studentesche di Belgrado, definendo le dimostrazioni come fatti di “terrorismo” e invitando i suoi sostenitori a tenere contro-manifestazioni in tutto il Paese il 28 marzo.
Da un lato appare chiaro come Vucic rischi la divisione del suo Paese quando invita i suoi sostenitori a organizzare una reazione, puntando sul suo sostegno all’estero. Dall’altro vanno valutate nel merito le questioni, come l’inchiesta sull’incidente e il passo indietro del premier che dovrebbe dar vita ad un nuovo governo entro il 18 aprile come previsto dalla Costituzione oppure a nuove elezioni in giugno, con il rischio però che l’immagine di Vucic (e il suo consenso) giunga meno solida rispetto al passato.
Gli intrecci
Va ricordato che il governo di Belgrado in occasione della guerra in Ucraina, si è rifiutato di partecipare alle sanzioni contro la Russia, dalla quale continua a ricevere gas naturale a basso costo, al contempo la Russia mantiene una “base umanitaria” nella città di Nis. Il nesso con il Kosovo è conseguente, con una sorta di contrapposizione tra Bruxelles e Mosca che si materializza proprio nelle tensioni tra Belgrado e Pristina. Il Kosovo tra l’altro è in procinto di avere un nuovo governo dopo le elezioni politiche di febbraio e non mancano difficoltà di natura politica per la nascita del nuovo esecutivo.
Il fattore Xi
A fronte di ciò non va dimenticato il fattore Xi, ovvero il progetto cinese di espandere la propria influenza globale nei Balcani occidentali attraverso la Digital Silk Road, una costola della Via della Seta. Si tratta di un’azione che punta ad ottimizzare le infrastrutture digitali, la connettività della rete e il commercio, a vantaggio delle aziende tecnologiche cinesi come Huawei. Da un lato Pechino offre vantaggi tecnologici ai Paesi partecipanti, un po’ come aveva fatto dieci anni fa con la Belt and Road proponendosi di costruire ponti e autostrade per favorire la propria penetrazione; dall’altro accrescono i rischi geopolitici, di sicurezza nazionale e di influenza straniera.
La reazione occidentale si ritrova in due provvedimenti: la Clean Network Initiative lanciata dagli Usa nel 2020 per proteggere l’infrastruttura digitale da provider non affidabili e l’Agenda digitale per i Balcani occidentali dell’Unione europea.
Scenari
Oggi il rischio nei Balcani si chiama ancora Cina, dove sono in essere i contratti Bri che spesso includono clausole che consentono ai Paesi di cedere asset, come i diritti su un porto marittimo, invece di rimborsi in contanti sui prestiti. Tali condizioni hanno portato molti soggetti a paragonare il programma in questione ad una vera e propria trappola del debito. Uno scenario che è retrocesso “comunicativamente” in secondo piano a causa della guerra in Ucraina, ma che deve procedere politicamente di pari passo alla cosiddetta riunificazione dei Balcani, obiettivo europeo a cui anche l’Italia lavora.