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Il piano egiziano per Gaza è un compromesso fragile. Dentice spiega perché

Quale futuro per Gaza? Dopo diciassette mesi di guerra, c’è un piano proposto da Trump e supportato dai radicali israeliani — la “Riviera” — e uno lanciato da Egitto e Paesi arabi, che però potrebbe essere meno dirompente delle attese, ragiona con Formiche.net Giuseppe Dentice (OsMed). Le settimane a venire saranno cruciali per capire se il piano egiziano possa reggere alla prova di una realtà “in costante evoluzione e assolutamente imprevedibile nei suoi impatti”

Il vertice della Lega Araba, tenutosi mercoledì al Cairo, era atteso come un momento chiave per delineare un’alternativa alla proposta del presidente statunitense, Donald Trump, sulla creazione di una “riviera mediorientale” nella Striscia di Gaza. La risposta è arrivata, ma il suo impatto appare ridimensionato rispetto alle aspettative delle opinioni pubbliche arabe.

Il piano egiziano per ricostruire — materialmente e politicamente — la Striscia, dopo 17 mesi di guerra tra Israele e Hamas, prevede uno stanziamento di 53 miliardi di dollari, evitando il trasferimento forzato dei palestinesi e stabilendo una fase di transizione della governance di sei mesi. In questo periodo, spiega Giuseppe Dentice, analista dell’Osservatorio Mediterraneo dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V, la gestione dell’area sarebbe affidata a un comitato palestinese indipendente e tecnocratico, operante “sotto l’ombrello” dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Secondo il documento finale del vertice, questa entità non dovrebbe avere legami con alcuna fazione politica e sarebbe incaricata di supervisionare gli aiuti e amministrare il territorio in vista del ritorno dell’Anp a Gaza.

Il mondo arabo si muove?

La sicurezza dell’enclave palestinese, ricorda Dentice, sarebbe garantita da un dispositivo formato da forze egiziane e giordane, incaricate di addestrare le fazioni palestinesi sotto la guida dell’Anp: “Ma chi dovrebbe governare la Striscia in futuro? Non è espresso in maniera chiara”. È una delle principali ambiguità del piano.

Un altro nodo cruciale è l’esclusione di Hamas da qualsiasi ruolo nel futuro assetto di Gaza. Ufficialmente, il gruppo islamista ha accolto con favore la proposta egiziana, ma è difficile immaginare che, trascorsi i sei mesi previsti, possa accettare di rimanere fuori dalla vita politica palestinese. “Vi sarebbe una sollevazione popolare non a Gaza, ma in Cisgiordania, che porterebbe anche in maniera violenta alla fine stessa dell’Anp se accettasse una ipotesi simile”, avverte Dentice.

Oltre alla gestione della Striscia, il piano prevede l’organizzazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno, se le condizioni lo permetteranno. Tuttavia, il possibile esito delle urne rappresenta un’ulteriore incognita pesante: se Hamas dovesse vincere nuovamente, come accaduto nel 2006, l’Anp accetterebbe di farsi da parte? “Difficile supporlo, così come mi sembra molto complicato che possa farsi da parte”, risponde Dentice, ricordando che l’Anp è già accusata di corruzione e di mancanza di legittimità tra i palestinesi, soprattutto in Cisgiordania.

Per l’analista, l’intero piano egiziano sembra essere concepito più come una strategia di contenimento che come una soluzione definitiva. “Il non detto della proposta egiziana, appoggiata anche dagli altri Paesi arabi, mira a ‘comprare tempo’ e a proporre una soluzione compromissoria di corto termine”, afferma Dentice, aggiungendo che l’iniziativa del Cairo riflette anche le divergenze interne al mondo arabo sulla questione palestinese.

“In questo senso, però, non bisogna confondere il supporto arabo al piano egiziano con un sostegno unilaterale nelle posizioni politiche delle leadership, perché specie nel Golfo esistono spaccature molto nette sul futuro della governance palestinese e di Gaza”.

Le divisioni sono evidenti: mentre il Qatar mantiene un approccio opportunistico nei confronti di Hamas, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita spingono per un cambio netto di rotta. Abu Dhabi e Riad, secondo Dentice, vedono nella gestione della crisi di Gaza un’occasione per consolidare o avviare rapporti con Israele, in un quadro che richiama gli Accordi di Abramo. “Ma questo rappresenta anche un elemento di frizione e divisione soprattutto del campo arabo, molto più ampio di quanto non si pensi in generale”.

Cosa pensa Israele (e Trump)

Il piano egiziano è comunque un elemento di novità, che segna non solo l’ultimo mese di guerra, ma una lunga storia durante la quale — per primi i Paesi arabi — hanno usato più la retorica che l’azione per aiutare a risolvere la questione palestinese. Quanto del merito dell’inizio di un processo più pro attivo vada attributo a Donald Trump — con l’idea strampalata della “Riviera” protagonista anche di un diffusissimo video AI-generated — non è definibile.

Tuttavia, la presentazione della proposta egiziana (o araba) cerca di contrastare quella trumpiana, forse anche perché quest’ultima riflette una visione radicale, allineata con l’ala più estrema della politica israeliana, che punta allo svuotamento della Striscia e alla sua totale trasformazione. La prospettiva americana si sovrappone alle richieste della destra israeliana, che considera l’evacuazione dei palestinesi come una soluzione praticabile.

Le scelte politiche dell’amministrazione Trump dimostrano un sostegno a questa linea? Nei giorni scorsi, il segretario al Tesoro, Scott Bessent, ha ricevuto Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze israeliano noto per le sue posizioni ultra-sioniste, segnando un netto cambio di rotta rispetto all’amministrazione Biden — che aveva evitato esposizioni con l’ala estremista del governo israeliano. Smotrich ha apertamente elogiato la strategia di Trump, affermando che il piano per il trasferimento dei palestinesi sta entrando in una fase operativa, seppur graduale.

All’interno di Israele ci sono infatti tanti gruppi di potere che non sono interessati a soluzioni che contemplino l’autodeterminazione palestinese, e Israele sta già ostacolando l’accesso degli aiuti umanitari, mentre valuta ulteriori misure drastiche come il taglio totale di acqua ed elettricità a Gaza. Anche se l’amministrazione Trump continua a ribadire che il suo obiettivo è un futuro per Gaza “libero da Hamas”, il messaggio che esce dal dialogare con certe istanze, proponendo soluzioni ambigue, rischia di essere esplicito quanto sensibile per gli equilibri regionali.

Lo scenario è condizionato dunque dall’atteggiamento israeliano, evidenzia Dentice. Il governo di Benjamin Netanyahu sembra intenzionato a impedire qualsiasi consolidamento di una governance palestinese che non risponda ai suoi interessi. “Da parte israeliana vi è l’interesse pieno a rendere ineffettivo o impossibile l’avvio di una Fase 2 se non alle condizioni di Israele”, ragiona Dentice. Tel Aviv punta a mantenere una presenza militare nella Striscia, senza ritirarsi da aree strategiche come Netzarim e Philadelphi, e a preservare la libertà di operazione militare sul territorio – condizioni inaccettabili per Hamas, che chiede il rispetto degli accordi e negoziati per un cessate il fuoco.

In un contesto così incerto, il futuro della Striscia resta sospeso tra progetti di gestione instabili, equilibri arabi frammentati e la volontà israeliana di mantenere il controllo militare. Le settimane a venire saranno cruciali per capire se il piano egiziano possa reggere alla prova di una realtà “in costante evoluzione e assolutamente imprevedibile nei suoi impatti”.


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