All’inizio della guerra in Ucraina non pochi analisti e commentatori recuperarono dall’armamentario concettuale della guerra fredda il termine “finlandizzazione”. Allora il concetto fu utilizzato per descrivere il probabile futuro di un’Ucraina desiderosa di accedere all’Alleanza Atlantica, ma impossibilitata a farlo dalla presenza e minaccia russa al confine orientale. Tre anni dopo dobbiamo prendere atto che, in assenza di iniziative più che coraggiose, rivoluzionarie, la prospettiva ben si applica al futuro dell’Europa. Il commento di Luciano bozzo
Uno dei veri Maestri (pochi) che incontrai lungo il mio percorso di formazione accademica, Carlo Maria Santoro, insegnava che quando Stati Uniti e Russia si avvicinano, fino eventualmente a stringersi in un metaforico “abbraccio”, è l’Europa a farne le spese. A ben vedere, tuttavia, questo è il destino di tutte le diverse unità politiche che, nel corso della storia, si siano trovate strette tra potenze che, se concordi, ne potessero determinare il destino.
Scopo della politica del cardinal de Richelieu fu di sottrarre la Francia all’abbraccio potenzialmente fatale dei territori sotto sovranità imperiale che la stringevano sia da Nord-Est che da Ovest. Il primo e più importante obbiettivo della politica estera del cancelliere von Bismarck fu d’impedire il consolidarsi di un’intesa tra Francia e impero russo, che avrebbe costretto la Germania a un’eventuale guerra su due fronti. Nel XVIII secolo la Polonia fu spartita tre volte tra Russia – che la stringeva ad Est – Prussia ed Impero degli Asburgo, scomodi vicini occidentali, e cessò di esistere nel 1918. Venne poi nuovamente cancellata dalla carta geografica come conseguenza del Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939.
In questa medesima ottica non meno significativa appare la spartizione dell’Europa nelle sfere d’influenza delle due vere grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, Stati Uniti e Unione Sovietica. Spartizione che, più o meno propriamente, viene ricordata come conseguenza dell’accordo di Yalta e che sarebbe durata fino alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’Unione Sovietica. In quel caso fu il progetto di Churchill, analogo alle speranze dell’ultimo Hitler, di vedere gli Stati Uniti e l’Europa riuniti contro l’espansionismo sovietico a fallire. Allo stesso modo, l’apertura alla Cina dell’amministrazione Nixon, voluta dal segretario di Stato Henry Kissinger, fu il frutto della volontà di prendere l’Unione Sovietica tra due fuochi: Stati Uniti e Nato a Occidente e Repubblica Popolare Cinese a Oriente.
È prematuro dire se la clamorosa apertura del presidente Trump al leader del Cremlino risponda alla medesima logica politico-strategica dei casi storici citati. Parecchie sono le variabili da cui dipenderà se e quando la mossa di Trump condurrà al cessate il fuoco in Ucraina, a un successivo assetto politico-territoriale sufficientemente stabile e infine a un vero “appeasement” russo-americano in funzione anticinese. Sta però di fatto che molti, nel vecchio continente, si sono improvvisamente accorti della “solitudine”, niente affatto splendida, in cui l’Europa viene a trovarsi nel momento stesso in cui gli Stati Uniti minacciano di ridurre il loro determinante contributo alla difesa degli alleati Nato e si avvicinano alla Federazione Russa. La Francia di Richelieu rispose all’accerchiamento imperiale con un’efficace strategia di “contro-accerchiamento”, cercando un’intesa con i nemici dell’impero degli Asburgo, interni e soprattutto esterni: principi e sovrani protestanti, oltre agli Ottomani. L’abbandono della politica estera di Bismarck portò la Germania guglielmina ad optare per l’opzione militare, che, tuttavia, per due volte si sarebbe rivelata fallimentare: la guerra lampo a Occidente, diretta a mettere fuori gioco l’avversario più temibile (Piano Schlieffen), per concentrare poi lo sforzo contro l’impero russo.
Il caso dell’Europa odierna è evidentemente assai diverso e ben più complesso dei precedenti storici ricordati. Anche a voler prescindere dalla (imprescindibile) assenza di unità politica e dalla definizione di priorità strategiche condivise, non è realistico ipotizzare che gli Stati del Vecchio continente, membri e non della Nato, siano in grado di raggiungere un’autentica “autonomia strategica” nel breve-medio periodo. Allo stato attuale delle cose, peraltro, quei Paesi non paiono avere la forza e volontà necessarie per esercitare un’azione diplomatica diretta ad evitare l’embrassons nous russo-americano. Di fatto, la questione del se la Russia di Putin abbia davvero intenzione e capacità, una volta chiusa la partita ucraina a proprio favore, di attaccare un altro Paese della Nato è mal posta. Il punto vero, infatti, è il potere d’influenza che il Cremlino guadagnerebbe, in quel caso, nei confronti di un’Europa incerta e sospettosa rispetto alla garanzia di sicurezza americana e comunque esposta alla pressione russa, in ragione di un confine (Nato) con la Federazione che dopo l’ingresso della Finlandia oramai supera i 2.500 chilometri.
La Finlandia, a ben vedere, è un altro caso di Paese venutosi a trovare, al termine della Seconda guerra mondiale, tra i due blocchi, senza far parte di alcuno di essi e tuttavia direttamente esposto alla minaccia sovietica lungo un confine di 1.300 chilometri, dunque all’influenza politica russa. All’inizio della guerra in Ucraina non pochi analisti e commentatori recuperarono dall’armamentario concettuale della guerra fredda il termine “finlandizzazione”. Allora il concetto fu utilizzato per descrivere il probabile futuro di un’Ucraina desiderosa di accedere all’Alleanza Atlantica, ma impossibilitata a farlo dalla presenza e minaccia russa al confine orientale. Tre anni dopo dobbiamo prendere atto che, in assenza di iniziative più che coraggiose, rivoluzionarie, la prospettiva ben si applica al futuro dell’Europa.