“Il nuovo scenario che si sta delineando dopo UsAid non potrebbe essere più favorevole al Piano Mattei, soprattutto nella misura in cui quest’ultimo sostiene iniziative ispirate e guidate dagli africani, in settori come sanità, energia, istruzione, agricoltura e infrastrutture”, spiega a Formiche.net Ebenezer Obadare del Cfr
La decisione del Presidente Donald Trump di sospendere tutti gli aiuti esteri finanziati dal dipartimento di Stato e dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (UsAid) ha provocato un’ondata di reazioni contrastanti. In un momento in cui cresce la preoccupazione per l’espansione dell’influenza di Cina e Russia in aree come l’Africa, questa mossa sembra segnalare un passo indietro degli Stati Uniti proprio quando la competizione geopolitica si fa più intensa.
Sebbene un giudice federale americano abbia già stabilito che il presidente ha “oltrepassato i limiti della sua autorità costituzionale”, il messaggio politico dietro a tali scelte è chiaro: l’amministrazione Trump intende allineare ogni forma di assistenza estera alla propria agenda “America First”. Restando sull’Africa, si tratta di un cambiamento di paradigma che rischia di riscrivere le regole delle relazioni tra Stati Uniti e il continente, e di ridisegnare il ruolo stesso dell’aiuto allo sviluppo.
Per molti critici, la chiusura di UsAid equivale a un auto-sabotaggio: significa abbandonare un pilastro del soft power americano proprio mentre concorrenti globali e potenze regionali — come Cina, Russia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti — rafforzano la loro presenza nel continente africano. Dal 2001, UsAid ha erogato in media circa 23 miliardi di dollari all’anno, contribuendo a programmi cruciali come la vaccinazione, la prevenzione dell’Hiv e il sostegno alla società civile.
La ritirata americana potrebbe favorire Pechino e Mosca, entrambe determinate a ridurre l’influenza occidentale in Africa. La Russia, in particolare, è accusata di aver sostenuto colpi di Stato nella regione del Sahel, mentre la Cina continua a promuovere la sua Belt and Road Initiative e a diffondere la propria visione del mondo attraverso i numerosi Istituti Confucio sparsi nel continente.
Ma oltre al gioco delle grandi potenze, ciò che conta davvero è come i Paesi africani reagiranno a questo sconvolgimento. Per alcuni osservatori, si tratta di un’occasione storica per ripensare il rapporto dell’Africa con l’aiuto esterno. In oltre sessant’anni, il continente ha ricevuto più di 2.600 miliardi di dollari in aiuti. Pur avendo salvato milioni di vite, questi fondi hanno spesso rafforzato élite poco rappresentative, minato l’autonomia politica e indebolito le istituzioni statali, soprattutto in settori come la sanità, dove lo Stato ha progressivamente abdicato alle proprie responsabilità.
Il caso delle Ong è paradigmatico: da strumenti di diffusione dei valori democratici, in alcuni casi si sono trasformate in entità scollegate dalla realtà sociale, soggette a leggi restrittive imposte da governi sospettosi. Ripensarne il ruolo potrebbe aprire una riflessione più ampia sull’impatto reale della cooperazione internazionale nel contesto postcoloniale africano.
Sul piano più profondo, la questione tocca anche la dimensione morale dello sviluppo. L’Africa può davvero emanciparsi facendo perno su un modello fondato sull’aiuto esterno? Oppure tale dipendenza rischia di diventare una trappola, che impedisce al continente di costruire una crescita autentica e autonoma?
Come ha osservato Gyude Moore, ex ministro liberiano, “non c’è futuro per un’Africa che decide di esternalizzare la propria ambizione”. Indipendentemente dall’esito legale della direttiva di Trump, la decisione offre all’Africa una possibilità unica: quella di ridefinire i termini della sua relazione con l’Occidente e di riaffermare la propria voce nello scenario internazionale.
È questo contesto che va usato per delineare il futuro del Piano Mattei. La strategia italiana per l’Africa avanza di distinguersi dalle attenzioni di altre potenze per l’approccio non predatorio, in grado di innescare una dinamica di cooperazione paritaria che mira al reale sviluppo africano. Come si incastrano il taglio di UsAid e il clima intra-continentale che potrebbe essere mobilitato con il progetto strategico italiano?
“Il nuovo scenario che si sta delineando dopo UsAid non potrebbe essere più favorevole al Piano Mattei, soprattutto nella misura in cui quest’ultimo sostiene iniziative ispirate e guidate dagli africani, in settori come sanità, energia, istruzione, agricoltura e infrastrutture”, commenta con Formiche.net Ebenezer Obadare, Douglas Dillon Senior Fellow per gli studi sull’Africa presso il Council on Foreign Relations (Cfr).
“Anzi, considerando quanto il Piano Mattei parli in modo forte e positivo dell’agency africana, si potrebbe legittimamente concludere che Roma ha anticipato Washington”.
Per l’esperto del Cfr (che approfondirà il ragionamento sul Piano Mattei nel prossimo numero della rivista) se l’Italia avesse mai avuto dubbi sulla validità o sulla correttezza del Piano Mattei, “quanto sta accadendo a Washington dovrebbe bastare a rassicurarla che ha fatto la scelta giusta”.
“Detto ciò — spiega — l’Italia non può agire da sola. Da un lato, ha bisogno della collaborazione degli altri Paesi dell’Unione Europea, soprattutto nella gestione delle migrazioni. Dall’altro, deve coinvolgere i suoi partner africani e convincerli che una partnership paritaria, fondata sul rispetto reciproco, qualcosa su cui molti Paesi africani insistono da tempo, non potrà che portare benefici a tutte le parti coinvolte”.
Paradossalmente dunque, proprio il congelamento degli aiuti statunitensi potrebbe essere l’inizio di una nuova era — meno dipendente dall’assistenza e più centrata sulla sovranità, sul commercio e sull’iniziativa africana. L’opportunità è reale. L’Africa non ha nulla da perdere nel coglierla. L’Italia riuscirà a essere un partner concreto e affidabile?