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Cosa c’è dietro l’avvicinamento di Trump all’Iran

Perché Trump cerca Teheran? C’è un quadro internazionale, legato sia ai collegamenti iraniani con Russia e Cina che alle dinamiche mediorientali. E c’è un livello interno, con l’Iran in una fase di debolezza che l’amministrazione statunitense vorrebbe sfruttare per trovare un accordo

Durante un’intervista con Maria Bartiromo (star di Fox Business), Donald Trump ha rivelato di aver inviato una lettera alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, esprimendo la propria disponibilità a raggiungere un accordo sul programma nucleare — che Teheran intende a scopi civili, perché una fatwa della Guida ne impedirebbe lo sviluppo militare, ma ci sono diversi sospetti che invece voglia costruire armamenti atomici per accrescere la propria capacità strategica.

Quello rivelato nei giorni scorsi dal presidente statunitense è molto più di un primo approccio ufficiale. Seguendo le regole delle relazioni internazionali, rappresenterebbe infatti un’importante apertura — ma Trump è anche poco avvezzo alle regole comuni e classiche, fattore da tenere in considerazione in generale quando si analizza la sua azione politica.

La lettera non è dunque sorprendente, d’altronde il presidente americano ci aveva già provato ai tempi del suo primo mandato, chiedendo a Shinzo Abe di consegnare una missiva personalmente a Teheran. Erano i tempi della creazione della cosiddetta “massima pressione”, e Khamenei non volle nemmeno leggerla — tanto che Abe fu costretto a tenere le lettera con sé durante un incontro ufficiale con il leader iraniano.

C’è adesso qualcosa di diverso nell’aria? Apparentemente l’amministrazione statunitense continua ad avere l’Iran nel mirino. Resta tra i nemici giurati e prioritari, ma ora la presidenza Trump è più organizzata e pronta a parlare con tutti. D’altronde, l’apertura a Vladimir Putin — a costo di giocarsi il rapporto con Kyiv e di dare una spallata all’Unione Europea — è un chiaro segnale. Così come la linea bastone e carota con la Cina.

Lo spazio per Teheran può esserci, anche perché questo potrebbe essere un buon momento per forzare la mano. Cina e Russia sono due delle ragioni. L’allineamento di Teheran con Mosca e Pechino è preoccupante, perché la Repubblica islamica offre agli altri del Crink una piattaforma iper-funzionante in Medio Oriente — regione che continua a dimostrare la sua centralità, nonostante lo shift strategico sull’Indo-Pacifico.

Dare all’Iran modo di poter parlare in qualche modo con gli Usa, in ottica grand strategy, serve a sganciarne le dipendenze (politiche ed economiche) da russi e cinesi. Per esempio: se gli Stati Uniti riuscissero a trovare un accordo contesto e funzionale con Teheran sul programma nucleare, significherebbe che le sanzioni della massima pressione potrebbero via via venir meno — secondo un sistema regolamentato di costruzione della fiducia reciproca — e addirittura eventuali centrali civili potrebbero anche essere fatte in cooperazione con aziende americane.

Siamo nel campo della fantapolitica, ma tutti i grandi percorsi iniziano da un primo passo. Se questa è l’ottica globale — in a nutshell rendere i partner cinesi meno dipendenti dalla Cina, operazione simile forse in corso con Mosca (con le giuste perplessità del super-esperto Carlo Jean) — c’è poi un livello più regionale. L’Arabia Saudita, il principale alleato mediorientale degli Usa, è in una fase di equilibrio precario con l’Iran (condivisa per altro con gli Emirati Arabi Uniti, altri alleati cruciali).

Riad ha scelto di mantenere intatto tutto il set up della normalizzazione dei rapporti mediata dalla Cina nel 2023 anche durante la crisi regionale prodotta dalla guerra israeliana a Gaza. La massima pressione trumpiana può diventare un problema per il regno, e da quella lettera può iniziare una distensione molto apprezzata dai Saud — e dal resto del Golfo, per primo il Qatar. La regione risente delle intemperie iraniane e delle rappresaglie incrociate con gli americani, che intaccano direttamente lo Stretto di Hormuz, l’Iraq, lo Yemen (e il corridoio del Mar Rosso dove da domani i filo-iraniani Houthi potrebbero tornare a colpire), il Levante (Siria e Libano) e chiaramente Israele.

Lo Stato ebraico vede la Repubblica islamica come una minaccia esistenziale, e non ha mai accettato i tentativi di normalizzazione degli americani — raggiungendo il massimo del disprezzo riguardo al Jcpoa, l’accordo sul nucleare mediato dall’amministrazione Obama dopo anni di trattative avviate dagli europei, che poi Trump ha distrutto nel suo primo mandato.

Ma adesso potrebbe essere diverso: nella protezione assoluta che Washington offre ora a Israele, potrebbe rientrarci anche un compromesso pragmatico: l’accettazione obtorto collo di un’intesa Usa-Iran. Benjamin Netanyahu ha ricevuto capitale politico americano, ora Trump potrebbe presentare il conto. E in fondo, un Iran “addomesticato” dagli americani potrebbe essere più gestibile anche per Israele — che vede l’attacco di Hamas del 7 ottobre e le montanti tensioni in Cisgiordania come parti di un disegno totale degli ayatollah per cancellare il Paese dalla mappa geografica.

Ma l’Iran sarà in qualche modo non tanto “addomesticabile”, ma gestibile? Le complessità del quadro internazionale — che coinvolge anche i delicati equilibri con la Turchia — producono un primo livello di scetticismo. Il secondo, ancora più profondo, è legato alla situazione interna alla Repubblica islamica. Nel mese scorso, il parlamento dominato dai ultra-conservatori ha affermato il suo potere sul presidente — un conservatore pragmatico e semi-moderato.

Mazoud Pezeshkian, eletto lo scorso giugno, ha dovuto subire l’impeachment e il successivo licenziamento dell’esperto ministro dell’economia, Abdolnaser Hemmati, mentre Javad Zarif, il vicepresidente e il più importante riformista (fautore del Jcpoa), è stato anch’egli costretto a dimettersi. Entrambe le manovre sono state compiute contro il potere presidenziale, ma con l’economia che barcolla sotto la pressione delle sanzioni economiche americane, l’85enne leader supremo ha chiaramente deciso di non salvare Pezeshkian.

C’è in ballo l’equilibrio totale del regime. Il Parlamento segue l’onda convocando un gruppo di 11 ministri per porre loro 49 domande sulle loro prestazioni: un altro tentativo di destabilizzare la leadership politica di Pezeshkian per ottenere un’ulteriore sottomissione. Il quadro in cui arriva la lettera è dunque instabile. Da un lato, se Khamenei aprisse a una discussione con Trump, la linea pragmatica potrebbe ottenere un grande risultato — incontrando parte del consenso delle opposizioni.

Dall’altro, gli ultra-conservatori e la loro costituency potrebbero usare questa apertura a proprio interesse. La narrazione dei reazionari ruota infatti attorno alla sottomissione al “grande Satana” (gli Usa) per rinvigorire uno spirito nazionalista — e anti-occidentale. La palla è in mano alla guida, che ha il compito complesso di gestire le anime interne e l’interesse nazionale, che però passa anche dalle relazioni internazionali — in primis con Donald Trump, che cerca di chiudere accordi quando crede gli altri in fase di debolezza.


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