La nuova strategia economica dell’America potrebbe puntare sui dazi per ridurre il deficit commerciale e finanziare il bilancio federale. Un’idea audace, ma non priva di contraddizioni e rischi geopolitici. Ecco perché nell’analisi di Gianfranco Polillo
Nel contesto mondiale e nella storia contemporanea, l’economia americana rappresenta qualcosa di unico ed irripetibile. Due gli elementi che da sempre l’hanno supportata ed avvantaggiata: il signoraggio del dollaro e la disponibilità di credito a livello internazionale. Nessun vincolo, se non la volontà dell’Ente emittente, ha condizionato la gestione della moneta verde. Quel leggero diaframma, che postulava all’inizio la sua convertibilità in oro, fu infatti rimosso nel Ferragosto del 1971 e da allora il suo valore fu affidato al semplice gioco della domanda e dell’offerta. Offerta controllata e gestita direttamente dalla Fed, la banca centrale degli Stati Uniti. Che a sua volta ha sempre operato in solitario, salvo che in due occasioni: nel 1985 (riunione del Plaza a New York) e nel 1987 (analogo meeting presso il Louvre). In entrambi i casi, al capezzale del malato, i Governatori delle altre Banche centrali, per decidere come fermare, prima, la svalutazione del dollaro, poi la sua successiva rivalutazione.
Al di fuori di questi episodi, che richiesero un minimo di coordinamento delle politiche economiche dei principali Paesi occidentali, la Fed operò a suo piacimento. Intervenendo, con misure deflattive, solo quando l’eccesso di inflazione minacciava la stabilità del sistema, come durante la stagflation degli anni ‘80. Oppure, nel caso inverso, alimentando la liquidità, per far fronte alle conseguenze della bolla speculativa sulle dot-com, agli inizi del Terzo millennio. In questo secondo caso la politica monetaria divenne particolarmente accomodante per sostenere la borsa, alimentando quell’ irrational exuberance (copyright di Alan Greenspan) che sarà poi una delle cause più rilevanti della Global Financial Crisis del 2007/08.
La mancanza di ulteriori vincoli nella gestione della politica monetaria aveva consentito agli Stati Uniti di poter tranquillamente ignorare i segnali provenienti dall’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Costantemente in deficit. Nel periodo che va dal 1980 ai giorni nostri, il saldo negativo era stato pari, in media, al 2,5 per cento del Pil. Poche le eccezioni di un saldo positivo: il 1980, l’anno successivo ed il 1991. Più lungo il periodo, invece, in cui il deficit era debordato, come negli anni 1999/2008, quando aveva raggiunto un picco del 5,9% del Pil o più recentemente, sotto la Presidenza di Joe Biden, quando l’aumento dei prezzi aveva investito soprattutto i prodotti alimentari (un uovo, un dollaro): una delle cause non secondarie della grande disaffezione dell’elettorato nei confronti del Partito democratico.
Al di là di questi limitati contraccolpi, il signoraggio del dollaro aveva consentito alla società americana di vivere al di sopra delle proprie possibilità. Liberandola dalla necessità di ricorrere a misure ristrettive, come avveniva in tutto gli altri Paesi della Terra, ogni qual volta in cui il deficit della bilancia dei pagamenti, comportasse una svalutazione monetaria. Per arrestare la quale era appunto necessario il ricorso a forme di austerity. La differenza tra esportazioni ed importazioni, nel caso americano, veniva invece finanziato con il crescente ricorso a debiti nei confronti dell’estero. Che trasformavano progressivamente l’economia di quel Paese in una sorta di terminale della finanza internazionale. I cui stakeholder erano soprattutto i principali Paesi occidentali. Specie coloro – a partire dalla Germania – che godevano di un eccesso di risparmio rispetto alle possibilità di investimento interno. A sua volta contratto da politiche tendenzialmente ristrettive. Risparmio che di conseguenza era messo a disposizione del più forte Paese occidentale, ottenendo in cambio il contentino degli interessi. Ecco allora spiegato il mistero di quell’”ombrello monetario”, quale sinonimo di dipendenza finanziaria, di cui ha parlato recentemente Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della sera (12/03/2025).
I dati del Fondo monetario consentono di quantificarne i relativi flussi finanziari. Nel suo ultimo rapporto (2024 Global debt monitor) il debito complessivo degli Stati Uniti è stimato pari al 273,2% del Pil. Un valore inferiore a quello del Giappone (432,2%) e della Cina (289,4), ma superiore a quello dell’Eurozona (237,4%). Ben diverse, invece, le differenze relative alla sua composizione a partire dalla componente debito estero: pari nel caso degli Usa al 90% del Pil. La più alta in assoluta a livello internazionale. Le altre poste indicano un debito privato totale più o meno equivalente a quello dell’Eurozona (circa 150% del Pil), mentre quello pubblico è decisamente più elevato. Escludendo il Giappone, esso si trova al top dei Principali Paesi, con una percentuale pari al 123% del Pil, che supera del 38% quello europeo e del 46% quello cinese. Confronto quest’ultimo più che paradossale, vista la storia dei due Paesi. L’America liberale, da un lato; la Cina postcomunista dall’altro.
Comparare quei livelli mette in luce contraddizioni rilevanti. Per gli Stati Uniti non è bastato avere un tasso di crescita superiore a quello europeo, ai fini del contenimento del debito pubblico. Gli squilibri della finanza pubblica sono stati infatti superiori e di conseguenza lo scarto relativo ha portato a quell’impennata: manifestatesi soprattutto a partire dal 2008, all’indomani della Global Financial Crisis. Dagli inizi del Terzo millennio, infatti, la politica di bilancio americana era stata sempre più espansiva rispetto a quella dell’Eurozona: in media 4,8% del Pil, contro il 2,3. Ma dopo il giro di boa del 2008 le distanze erano decisamente aumentate. Ad una media europea pari al 3,4% del Pil si contrapponeva una crescita media annua dell’8,2%. Né le più recenti previsioni del Cbo (Congressional Budget Office), l’organo indipendente che controlla i dati della finanza pubblica, lasciano prevedere un possibile miglioramento.
Le tendenze calcolate sul bilancio 2004, la cosiddetta legislazione vigente, indicano una crescita senza sosta del deficit federale. Seguendo quel ritmo, nel 2034 sarebbe pari a 2,8 trilioni di dollari. Ad un passo dai livelli del 2020 (3,3 trilioni) quando il mondo era sconvolto dall’epidemia di Covid. Da qui la necessità di un suo contenimento che i tecnici del Cbo ipotizzano, in una manovra, tutta da asseverare sul piano politico, di circa 1 trilione di dollari in 10 anni. I relativi ingredienti dovrebbero essere sia un leggero aumento del prelievo fiscale, ma soprattutto una forte spending review in grado di ridurre il peso specifico del “pubblico”, per liberare risorse da utilizzare in altri campi. Da qui la nascita del Doge (Department of Government Efficiency) affidato direttamente ad Elon Musk, ma che il padrone della Tesla non sembra essere in grado di governare con la necessaria duttilità.
L’aspetto più debole del quel programma riguarda le imposte che i tecnici del Cbo vorrebbero aumentare e che, invece, Trump vuole diminuire. In questo caso, secondo le più recenti teorie di Stephen Miran, appena posto a capo del Council of Economics Advisers, i dazi potrebbero essere la classica fava che prende due piccioni. La loro introduzione contribuirebbe a ridurre il forte deficit commerciale americano ed al tempo stesso fornirebbe le risorse necessarie per contenere la pressione fiscale. I dazi dovrebbero, infatti, trasferire parte delle imposte – questa la teoria – sugli esportatori stranieri. I quali, piuttosto che rinunciare al mercato americano, sarebbero disposti a pagare, subendo un taglio degli utili, per mantenere inalterati i prezzi in dollari dei loro prodotti. Tesi, per la verità, tutt’altro che esente da contraddizioni. Ma immediatamente rimosse in nome della ragion di Stato.
Il peso maggiore della manovra dovrebbe tuttavia riguardare i possibili tagli della spesa. Nella visione minimalista del Cbo essi dovrebbero ammontare, nei prossimi 10 anni, a 990 miliardi, di cui 957,6 a carico del comparto difesa. Ipotesi, quest’ultima. dalle profonde implicazioni geopolitiche. Dal momento che le priorità dell’Amministrazione non riguardano più l’altra sponda dell’Atlantico, ma l’Indo Pacifico. Ed è allora che questa prospettiva impatta direttamente sull’Europa e sulla discussione in corso sulla necessità di una difesa comune, sempre più autonoma rispetto a quella americana. Le posizioni di Washington sono quanto mai chiare. Gli europei hanno un problema? Bene, visto che non appartengono al mondo del sottosviluppo, mettano sul piatto un po’ di soldi e provvedano essi stessi alla loro difesa. Di che somma si sta parlando? Al momento non è detto. Ma le cifre relative stanno ad indicare una forte rilevanza economica.
Nel 2024, il totale delle spese militari dei Paesi appartenenti alla Nato è stato pari a 1.474 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti vi hanno contribuito per 967 miliardi. Una cifra che è pari, ad oltre la metà del deficit federale dello stesso periodo: 1.832 miliardi di dollari. La proposta di Ursula von del Leyen, è invece di soli 200 miliardi di euro l’anno, per 4 anni. Nonostante l’evidenza di questa sproporzione, pacifisti d’ogni rito e vocazione sono scesi in piazza per gridare loro contrarietà. Non verseremo un euro in più. Che gli americani si fottano. Beata ingenuità. Non è scritto da nessuna parte che Washington debba continuare a sborsare il 70 per cento delle somme necessarie per mantenere in piedi una struttura che serve, per la propria difesa, ma anche in larga misura per proteggere gli interessi di lontani cugini. Di fronte ad un diniego immotivato, nel partecipare ad una più giusta ripartizione delle spese, possono semplicemente fare armi e bagagli e lasciare in braghe di tela i sofisti del diniego, formulato nel nome della kantiana “pace perpetua”. Che fu il sogno della fine del ‘700, ma anche il miraggio del “secolo breve”.