Per ripensare la globalizzazione non servono i dazi trumpiani ma rilanciare gli accordi commerciali tra Paesi like-minded. Ecco il senso della dichiarazione congiunta dell’Alleanza Globale per la politica commerciale e dell’innovazione (Gtipa). L’analisi di Stefano da Empoli, presidente Istituto per la Competitività (I-Com)
I dazi e più in generale le barriere al libero commercio sono uno dei temi che tradizionalmente più uniscono gli economisti, notoriamente divisi sui principali temi di loro competenza. Non da oggi peraltro ma quantomeno dai tempi immediatamente successivi agli scritti dell’economista inglese David Ricardo di inizio Ottocento. Contro il pensiero mercantilista dominante fino a gran parte del Settecento, Ricardo ha spiegato molto bene come il commercio internazionale possa recare beneficio a tutti i Paesi partecipanti agli scambi di merci. Dunque non un gioco a somma zero, dal quale una nazione può trarne beneficio esclusivamente a danno di un’altra, bensì uno a somma positiva. Non solo. Incorporando idee già espresse da Adam Smith, Ricardo mostrava come il commercio aiutasse processi di specializzazione settoriale, rendendo le economie più efficienti. Non è un caso che di fronte al Tariff Act del 1930, promosso dall’allora presidente Hoover per provare a ridurre i devastanti impatti della Grande Depressione, più di mille economisti si opposero. Con ragione, visto che successivamente si appurò come quel provvedimento abbia peggiorato ulteriormente la recessione economica in atto, anche a causa delle reazioni dei Paesi colpiti. Oggi non siamo (ancora) di fronte a una depressione economica ma l’amministrazione Trump sta comunque giocando con il fuoco, trovando di nuovo l’opposizione quasi unanime di chi per professione studia i sistemi economici. Un appello per ricordare al presidente Usa e agli altri decisori i benefici del libero commercio, lanciato lo scorso 18 aprile da diversi Premi Nobel per l’Economia e da altri importanti economisti statunitensi, in buon numero vicini alle posizioni del partito Repubblicano e in alcuni casi elettori di Trump, dopo dieci giorni ha raccolto la bellezza di oltre 1.700 sottoscrizioni.
La dichiarazione congiunta promossa da oggi da 12 think tank appartenenti all’Alleanza Globale per le politiche commerciali e dell’innovazione (Gtipa), di cui l’Istituto per la Competitività (I-Com), sottoscrittore e membro italiano del network insieme a Competere, ha promosso la traduzione italiana, parte dagli stessi presupposti. Il commercio internazionale spiega una parte significativa dell’innovazione e dell’aumentato benessere dei Paesi a reddito basso o medio registrato negli ultimi decenni. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), dalla creazione di quest’ultima, avvenuta nel 1993, il reddito pro capite nelle nazioni a basso e medio reddito è quasi triplicato e circa un terzo di questa crescita è collegato per l’appunto all’apertura commerciale. Numerose evidenze indicano che i paesi con un approccio orientato all’apertura verso l’esterno generalmente sperimentano una crescita economica più rapida rispetto a quelli con politiche rivolte all’interno. Ricerche del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) indicano che i benefici della liberalizzazione commerciale possono superare i potenziali costi di transizione di un fattore superiore a 10. Nazioni che hanno aperto le loro economie a partire da allora e successivamente, come India, Vietnam e Uganda, hanno potuto ottenere una crescita accelerata e significative riduzioni della povertà.
Pur condividendone molte se non (quasi) tutte le tesi, l’appello Gtipa si distingue però per varie ragioni da quello degli economisti pro libero mercato pubblicato qualche giorno fa.
Innanzitutto, pur essendo stato promosso da un importante think tank americano (la Information Technology and Innovation Foundation di Washington D.C.) e sottoscritto da altri due (il Bay Area Economic Institute di San Francisco e il Center for Global Enterprise di New York) non ha una prospettiva soltanto americana ma globale, con gli altri think tank che rappresentano ben tre continenti (Americhe, Europa e Africa). A testimoniare non solo gli impatti mondiali dei dazi di Trump ma soprattutto che la soluzione si trova in un nuovo multilateralismo, che metta insieme un ampio gruppo di Paesi “volenterosi” che condividono stessi valori e regole.
Inoltre, la dichiarazione ha un’attenzione specifica all’innovazione come fattore principale di competitività e crescita. Viene dunque invocato un Accordo commerciale sull’Innovazione che possa azzerare i dazi su beni e servizi high-tech come volano per la crescita mondiale dei prossimi decenni. Ma la differenza più rilevante rispetto ad altri appelli pro libero commercio sta nella visione pragmatica e non ideologica che lo ispira.
Aspirare a una completa inversione di rotta delle decisioni sbagliate e poco razionali prese da Trump per tornare al punto di partenza di un novello gioco dell’oca appare per certi versi troppo poco e per altri eccessiva grazia. Le decisioni dell’amministrazione Trump sono una risposta naïf sia nel merito che nel metodo a un’interpretazione altrettanto naïf della globalizzazione che ha prevalso negli scorsi decenni e che ha consentito ad alcuni Paesi di approfittare a proprio esclusivo beneficio dell’apertura incondizionata dei mercati di altre nazioni, senza offrire la stessa reciprocità ma pretendendo di approfittarne opportunisticamente. In altre parole, mettendo in atto comportamenti vetero-mercantilisti travestiti con i ben più appealing abiti del libero mercato.
Il commercio internazionale è uno strumento di promozione economica e anche di progresso tecnologico e sociale se però tutti i Paesi lo interpretano alla stessa maniera, attenendosi a un quadro comune di regole. Se questo non accade non si può far finta di nulla, come è successo troppo a lungo, anche nell’errata speranza che una volta riguadagnata una buona prosperità economica il modello politico cinese potesse evolversi verso una possibile frontiera liberaldemocratica. Secondo la dichiarazione Gtipa, a quasi 25 anni dalla sua adesione al Wto, voluta dagli Stati Uniti e dall’Europa, la Cina ha dato ampia prova di manipolare le regole a proprio esclusivo vantaggio, danneggiando gli altri Paesi, sia quelli più sviluppati che in via di sviluppo. Ecco dunque che occorre far funzionare gli strumenti di cooperazione e di enforcement già previsti dal Wto, anziché vagheggiare un disimpegno dal quadro multilaterale, con la consapevolezza tuttavia che questo non possa bastare, almeno nel breve termine.
Occorre dunque pensare anche a nuovi accordi di libero commercio tra economie che aderiscano alle stesse regole, ispirate a mercati aperti e contendibili, nella consapevolezza che ai fini dell’innovazione è giusto che le politiche industriali possano avere un qualche ruolo (purché si faccia di tutto per minimizzarne gli impatti misallocativi). Dando priorità agli accordi in materia di innovazione, per accelerare il progresso tecnologico e dunque economico non solo nei Paesi in via di sviluppo ma ovunque, ciascun Paese avrebbe la possibilità di alzare l’asticella del proprio specifico modello di specializzazione. Valorizzando al massimo il gioco a somma positiva del commercio internazionale contro quello a somma zero del fin qui (in)espresso art of deal trumpiano, contraltare statunitense (decisamente più goffo e inefficace) del mercantilismo cinese di questi ultimi decenni. Augurandoci, e siamo al finale della dichiarazione, che anche quest’ultimo possa evolvere, non sulla base di qualche wishful thinking ma di una giusta pressione congiunta di una vasta coalizione di Paesi.