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Cosa lega l’antisemitismo cinese al confronto con gli Usa? Risponde Gering

In alcune occasioni, diplomatici cinesi hanno tracciato paragoni diretti tra lo Xinjiang e Gaza in merito alle accuse di genocidio, e tra Gaza e l’Ucraina rispetto all’ordine internazionale basato sulle regole. Gering (Acus) spiega a Formiche.net perché Israele viene rappresentato come un proxy americano, una pedina della sua egemonia regionale, innescando una dinamica in cui più è demonizzato, più ne risente l’immagine degli Stati Uniti

Come dovremmo interpretare l’apparente spostamento della Cina da una posizione di filososemitismo a una sempre più percepita come antisemita? È una trasformazione ideologica, o piuttosto un aggiustamento tattico guidato dal ruolo in evoluzione della Cina in Medio Oriente e nel Sud del mondo? Parte da qui la conversazione con Tuvia Gering, studioso dell’Atlantic Council che il 16 aprile sarà ospite della serie di approfondimenti che Enrico Fardella — professore dell’Università di Napoli ‘l’Orientale e Associate Director del Guarini Institute for Public Affairs della John Cabot University —  organizza alla John Cabot  di Roma,. Gering sarà protagonista di un evento (appuntamento ore 18 nell’Aula Magna Renella) che si intitola “The great flip forward”. Capire l’improvviso passaggio della Cina dal filosemitismo all’antisemitismo in un Medio Oriente che cambia è uno dei compiti fondamentali di chi analizza le attività cinesi a livello internazionale — con un interesse riflesso anche sull’Italia.

“Il cambiamento della Cina — spiega Gering — non è soltanto una trasformazione ideologica né semplicemente un aggiustamento tattico, ma piuttosto un intreccio di entrambi gli elementi. Prima del recente mutamento, la Cina veniva spesso descritta come ‘filosemita’, con una visione idealizzata degli ebrei come ‘ricchi e intelligenti’, ed era davvero uno dei Paesi più accoglienti nei loro confronti. Nel corso della storia, non si registrano casi documentati di discriminazione o persecuzione contro le piccole comunità ebraiche presenti in Cina. Negli ultimi anni, i discendenti degli ebrei di Kaifeng sono stati oggetto di repressioni, ma ciò riflette un modello più ampio di controllo nei confronti dei gruppi religiosi non riconosciuti sotto la leadership di Xi Jinping, piuttosto che un’ostilità specifica verso gli ebrei”.

Gering analizza come l’assenza di antisemitismo è stata attribuita a fattori come la mancanza di pregiudizi religiosi e culturali radicati contro gli ebrei, il limitato contatto storico con l’ebraismo globale, l’ammirazione per il successo economico dei commercianti ebrei sin dal XIX secolo e il rispetto per figure intellettuali come Einstein e Marx (quest’ultimo venerato dal Partito Comunista Cinese quasi come una figura religiosa). Alcuni studiosi e funzionari hanno osservato una simpatia condivisa tra cinesi ed ebrei, nata dai traumi nazionali subiti durante la Seconda guerra mondiale sotto l’imperialismo giapponese e il nazismo: “Nel corso degli anni, funzionari cinesi e israeliani hanno sfruttato questa visione idealizzata degli ebrei in Cina per rafforzare la proiezione di soft power e migliorare le relazioni economiche, anche se alcuni studiosi avevano messo in guardia sul fatto che questi stereotipi positivi fossero intrinsecamente instabili. E in effetti lo erano davvero”.

Il drammatico aumento della retorica antisemita dopo il massacro del 7 ottobre suggerisce qualcosa di più di una semplice reazione spontanea dell’opinione pubblica, però. “L’ambasciatrice statunitense per la lotta contro l’antisemitismo, Deborah Lipstadt, ha sollevato il sospetto che il governo cinese stia consentendo o persino orchestrando questo cambiamento. Diversi elementi indicano una dimensione tattica in questa trasformazione: Lipstadt ha suggerito che i regimi autoritari, in particolare Russia, Iran e Repubblica Popolare Cinese, potrebbero usare l’antisemitismo come arma per posizionarsi contro le democrazie, richiamando le tattiche sovietiche della Guerra Fredda note come misure attive”. Lipstadt aveva parlato di certe dinamiche nell’antisemitismo globale anche durante una conversazione con Formiche.net avvenuta l’11 ottobre 2023.

“L’attuale impennata coincide con la crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti. Sottolineando le presunte azioni israeliane a Gaza e difendendo il terrorismo palestinese come “resistenza”, la Cina mira a rappresentare i valori occidentali dei diritti umani come ipocriti e a minare la credibilità degli Stati Uniti nel mondo musulmano e nel Sud Globale. In alcune occasioni, diplomatici cinesi hanno tracciato paragoni diretti tra lo Xinjiang e Gaza in merito alle accuse di genocidio, e tra Gaza e l’Ucraina rispetto all’ordine internazionale basato sulle regole. Israele viene rappresentato come un proxy americano, una pedina della sua egemonia regionale, e più è demonizzato, più ne risente l’immagine degli Stati Uniti”.

In effetti, dal 7 ottobre, i media statali, funzionari e accademici cinesi hanno demonizzato e disumanizzato israeliani ed ebrei, amplificando la propaganda di Hamas e dell’Iran. “Prove raccolte da me e dal mio team di Planet Nine indicano che una campagna di disinformazione online guidata dallo Stato, nota come ‘Spamouflage’ e attribuita al ministero della Sicurezza Pubblica della Prc, ha attivamente incluso contenuti apertamente antisemiti e anti-israeliani nelle sue operazioni per rafforzare la narrazione ufficiale dello Stato”.

Vi sono anche prove evidenti del fatto che la posizione cinese sia influenzata dal suo ruolo in Medio Oriente? “Sin dagli anni Cinquanta e Sessanta, la Cina si è allineata ai Paesi arabi contro ‘l’imperialismo occidentale’, e questa posizione pro-palestinese e anti-israeliana è stata costantemente espressa nei forum internazionali. Questa linea è proseguita anche dopo l’instaurazione delle relazioni diplomatiche nel 1992. La condanna unilaterale di Israele da parte della Cina dopo il 7 ottobre, senza menzionare Hamas, riflette questo schema. Dai tempi di Mao, i media del Partito hanno spesso rappresentato negativamente Israele e il sionismo, probabilmente alimentando atteggiamenti antisemiti più ampi. Negli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, Israele era attaccato quasi ogni giorno sul People’s Daily, organo ufficiale del Partito. Il sostegno degli Stati Uniti a Israele viene addotto come prova del declino morale e geopolitico di Washington, dimostrando la sua perdita di credibilità nel mondo musulmano, nel mondo arabo e nel Sud Globale. Già nel 2021, Zhang Chuchu della Fudan University dichiarava ad Al Jazeera che ‘sostenere la Palestina è una correttezza politica internazionale’ e che la Cina usa il conflitto per criticare gli Stati Uniti e ‘guadagnare punti sulla scena globale’”.

Come mi ha detto uno studioso cinese di relazioni internazionali nel maggio 2024: “Usiamo Israele come bastone per colpire gli americani”. “Esattamente: mentre i contenuti antisemiti si sono moltiplicati sui social media cinesi, le voci pro-Israele e i resoconti oggettivi dei fatti del 7 ottobre sono stati censurati o ostacolati dal Partito Comunista Cinese. Per oltre un anno, la linea ufficiosa ma effettiva della Cina è stata quella di isolare Israele. Solo dopo il primo anniversario della guerra si è iniziato ad assistere a un parziale disgelo”.

Tuttavia, non si tratta solo di una manovra tattica? “La Campagna di Educazione Patriottica lanciata dal Partito Comunista Cinese dopo il massacro di Piazza Tiananmen nel 1989, insieme al Sogno Cinese di Xi Jinping, ha alimentato un forte senso di etno-nazionalismo Han, enfatizzando la vittimizzazione passata e l’umiliazione nazionale inflitta dagli ‘altri’, in particolare le ‘potenze occidentali’ e gli ‘imperialisti giapponesi’. Gli ebrei sono spesso assimilati all’Occidente, allo ‘straniero’, all’estremo ‘Other’, e oggi sono frequenti i paragoni tra Israele e i criminali di guerra giapponesi della Seconda guerra mondiale”.

Nell’immagine sotto, un post su X di Xue Jian, il console generale della Cina a Osaka.

Gering spiega come l’ascesa dell’antisemitismo sia legata anche a fattori interni, come il “crescente etno-nazionalismo nella Prc” e il ruolo significativo che “i social media e Internet in Cina hanno avuto nel peggiorare l’antisemitismo, accelerando la diffusione di discorsi d’odio, teorie del complotto e disinformazione”. Un’altra spiegazione di questo “ribaltamento” può essere compresa attraverso il neologismo “allosemitismo”. Derivato dal greco allos, cioè “altro”, indica una visione dualistica degli ebrei come fondamentalmente estranei, capaci di suscitare sia ammirazione che ostilità. “Questa ambivalenza intrinseca — continua l’esperto — rende le percezioni suscettibili a cambiamenti rapidi, specialmente in risposta a stimoli politici. Poiché le popolazioni asiatiche, in generale, hanno pochissima esperienza diretta con gli ebrei, è molto facile per loro cadere in una comprensione superficiale, che li identifica come incarnazione sia di ciò che si desidera sia di ciò che si detesta”.

Il 7 ottobre e la guerra in corso hanno decisamente accelerato questo cambiamento. Abbiamo visto un’ondata di antisemitismo globale e la Cina fa parte di questa tendenza. “Il forte sostegno dell’America a Israele e il suo uso del potere di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno messo gli Stati Uniti e Israele in opposizione a gran parte del mondo, non solo al Sud globale e al mondo musulmano, e la Cina conta su questo, come l’ex ambasciatore della Prc Liu Baolai ha sottolineato nel novembre 2024”. Gering si riferisce a questo passaggio del discorso di Liu: “Il 2024 è stato un anno disastroso per gli Stati Uniti in Medio Oriente”, ha detto, sostenendo che gli Stati Uniti sono in una “posizione difficile” e che il loro sostegno a Israele ha portato a “aumento del sentimento anti-americano” nel Sud globale e nel mondo musulmano.

Per Gering è importante notare che rivoltarsi contro Israele durante i conflitti, nonostante i legami economici generalmente cordiali, è stato in qualche modo una norma per la Cina. C’è un calcolo che questa posizione sia popolare, che Israele capisce la retorica (non sostenuta da sanzioni o azioni significative contro Israele) e che i legami possono tornare a “business as usual” una volta che il conflitto si placa. Come Yitzhak Shichor ha sostenuto in passato, la Cina sa che gli Stati Uniti porranno il veto a qualsiasi mozione contro Israele, quindi le sue condanne di Israele alle Nazioni Unite sono essenzialmente posture senza senso.

Tuttavia, la portata delle atrocità del 7 ottobre e la crisi degli ostaggi ancora in corso hanno colpito duramente Israele, e la Cina ha sottovalutato la profondità del trauma nazionale. “Molti israeliani — spiega Gering — si sono sentiti traditi da ciò che vedevano come Pechino che si schierava con i terroristi. In risposta, la Cina ha iniziato a ricalibrare. Da novembre, il nuovo ambasciatore Dr. Xiao Junzheng ha lavorato per ricostruire la fiducia e cambiare il tono dei legami bilaterali. Ciò è stato sottolineato dall’incontro del ministro degli Esteri cinese Wang Yi con l’omologo Gideon Sa’ar, il primo incontro faccia a faccia dei ministri degli Esteri in un decenni. Wang ha sottolineato il desiderio di “vedere la relazione da una prospettiva strategica a lungo termine”, riaffermando che “la Cina è disposta a lavorare con Israele per sviluppare ulteriormente il partenariato globale innovativo Cina-Israele”. Ha anche invocato la storia condivisa, osservando che “durante la guerra antifascista, entrambi i popoli si sono simpatizzati e si sono sostenuti a vicenda, forgiando un legame di amicizia”.

Già, ma dov’era questa “amicizia” nell’anno precedente? Se la Cina sta davvero ridefinendo la sua narrativa su Israele, che impatto potrebbe avere questo sul più ampio “discourse of power” in Medio Oriente? “In una certa misura, non si tratta tanto di una ridefinizione completa, quanto piuttosto della continuazione e dell’intensificazione di narrazioni già esistent, risponde lo studioso. “Finché il conflitto continuerà, è probabile che la Cina continuerà a usare Israele come leva per criticare gli Stati Uniti e rafforzare la propria immagine in alcune aree del mondo, dipingendo i diritti umani e i valori occidentali come selettivi e strumentali. Tuttavia, la situazione in corso ha anche messo in luce i limiti dell’influenza geopolitica della Cina. Nonostante gli sforzi diplomatici, come l’accordo tra Iran e Arabia Saudita del marzo 2023 o la cosiddetta ‘Dichiarazione di Pechino. tra le fazioni palestinesi (compreso Hamas) lo scorso luglio, la Cina ha finora mostrato una certa riluttanza ad assumere un ruolo più attivo e di leadership nella risoluzione dei conflitti in Medio Oriente”.

Come conclude un recente articolo di un accademico dell’Università di Pechino (PKU), “Pechino sembra aver deciso che i costi del guidare una mediazione in un ambiente tanto volatile superano di gran lunga i potenziali benefici diplomatici”. Sebbene il sentimento antiamericano sia diffuso nella regione, gli Stati Uniti restano indispensabili nella lotta al terrorismo e nel contenimento dell’Iran e dei suoi proxy, un ruolo che la Cina non è né attrezzata né disposta ad assumere (come abbiamo recentemente analizzato anche in “Indo-Pacific Salad”.

Per Gering, “l’architettura della sicurezza regionale in evoluzione, in particolare il tentativo di rilanciare gli Accordi di Abramo in una versione ‘2.0’, evidenzia ulteriormente i limiti dell’influenza cinese. Questa iniziativa, guidata dagli Stati Uniti, mira a promuovere un’integrazione economica e di sicurezza più profonda tra Israele e gli Stati sunniti moderati, in particolare l’Arabia Saudita, creando un fronte comune contro l’Iran sciita e i suoi proxy”.


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