Tra tanta incertezza e prospettive negative, l’Italia sta dando prova di nervi saldi nella condotta della finanza pubblica, mantenendosi in linea con il percorso di riequilibrio tracciato nel quadro del Patto di Stabilità con l’Ue. Resta nondimeno intatta l’urgenza per il Paese di attuare profonde riforme che ridiano slancio ai fattori di crescita nella stabilità. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Con l’avvento della nuova presidenza Trump l’economia mondiale è entrata in una fase dominata da un’incertezza e instabilità che supera perfino quelle viste durante l’ultima pandemia e tali da frenare il suo sviluppo per più anni. Lo scossone americano all’ordine economico si va propagando a ondate successive attraverso tutti i paesi e le imprese, con ripercussioni anche sulla stessa America, così ampie da indurre il Presidente a mitigarne temporaneamente l’impatto.
La guerra dei dazi è soltanto l’evento più eclatante di questi mesi, mentre la contemporanea messa in discussione dei rapporti con gli alleati di tre quarti di secolo e il confronto con la Cina e altri paesi introducono grandi rischi per la stabilità della pace mondiale. L’Ue è risucchiata in questo maelstrom, in cui cerca affannosamente di mantenere buoni rapporti con il suo grande protettore, gli Usa, e non dovergli pagare oneri eccessi per questa funzione.
Sul fronte delle relazioni commerciali internazionali si è aperta una inquietante tensione tra le due sponde dell’Atlantico. Le poste in gioco sono l’apertura dei rispettivi mercati e la parità di condizioni nell’accesso.
Dietro il contrasto di posizioni si ergono, peraltro, differenze notevoli nell’importanza attribuita a valori come la tutela sociale, dei diritti individuali, dei consumatori e dell’ambiente. Su questo terreno e sul voler riportare in auge la manifattura americana al riparo di una cortina protezionistica si infrangono o si rimpiccioliscono le possibilità d’intesa con un’Europa gelosa di salvaguardare il suo modello di vita. In discussione non è soltanto l’equilibrio della bilancia dei pagamenti Usa-Ue, né Usa-Italia, come si tende a considerare gli incontri di Trump con gli Europei e con il Premier italiano. Le tensioni dal campo degli scambi mercantili, ovvero di prodotti fisici, tendono ad allargarsi al comparto dei servizi e ai flussi di capitali. Vanno anche oltre per toccare la tassazione dei beni e dei servizi, e le regolamentazioni europee, che per la loro difformità da quelle americane si pongono come ostacoli all’ingresso dei prodotti americani nel mercato europeo. Questi aspetti che esulano dalla questione tariffaria, sono visti come barriere non tariffarie e quindi messe in conto nel confronto con gli europei.
In ciascuno di questi comparti Trump rivendica un trattamento particolare che l’Ue debba concedere agli americani. Nella preparazione della visita della Meloni a Washington si è sostenuto che si possa far valere che la bilancia dei pagamenti americana per la parte servizi presenta con l’Europa saldi positivi, che bilanciano il deficit mercantile fino a ridurre l’avanzo europeo ad appena il 3% del volume complessivo dell’interscambio. Inoltre, i valori degli investimenti diretti dell’uno nell’altro sono in sostanziale equilibrio. Tuttavia, il saldo della bilancia corrente europea con gli Usa presentava nel 2024 un surplus di oltre 113 miliardi di euro. In contrasto, gli Usa beneficiano di notevoli flussi di risparmio europeo per coprire i suoi disavanzi con l’estero e nei bilanci pubblici.
Questa contrapposizione di valutazioni e di dati genera nelle imprese, gli operatori ed i decisori politici grande incertezza su quale sarà fra breve il contesto economico a cui dovranno far fronte. Un’incertezza paralizzante sulle più rilevanti scelte di investimento e di policy e che permarrà fin tanto che i rapporti commerciali e non-commerciali tra le due potenze economiche, ma anche tra gli Usa e la Cina, saranno esposti a sconvolgimenti ed il negoziato per ricomporli in un chiaro e stabile assetto non sarà concluso positivamente.
La missione del Presidente Meloni serviva ad accelerare il negoziato, non ad ottenere la riduzione dei dazi americani. Tra l’altro, l’Italia non può negoziare accordi bilaterali con gli Usa o altri paesi perché questa attività è di competenza esclusiva della Commissione Ue che la esercita con il consenso degli Stati membri. Gli accordi vanno approvati da tutti i membri e quindi devono tener conto delle esigenze di tutti. Se la visita del premier italiano ha contribuito a creare un clima costruttivo per il raggiungimento di un accordo tra Washington e Bruxelles, non ha diradato la grande incertezza sul nuovo contesto di mercato che ne uscirà. Sembra, invece, altamente probabile che con la presidenza Trump il grado di apertura del mercato americano ai prodotti europei sarà più stretto che nel passato.
Prima della presidenza Trump, secondo i dati del Wto per il 2023, il grado di protezione tariffaria del mercato americano risultava inferiore a quello europeo, contrariamente a quanto sostenuto dai servizi della Commissione Ue. La disparità può apparire modesta, ma concorreva a far sì che le importazioni degli Usa dall’Europa superassero in misura sostanziale il suo export nella stessa area. In particolare, la tariffa massima americana applicata su tutte le importazioni di prodotti non-agricoli ammontava in media semplice a 3,1% contro il 4,1% europeo e in media ponderata per le quantità di merci effettivamente commerciate al 2,1% contro il 2,3%.
Nel commercio bilaterale Usa-Ue, i prodotti americani non agricoli esportati in Europa sono stati gravati di dazi in media semplice del 4,5%, mentre per quelli importati l’onere è stato del 3,9%. Ponderando per le quantità scambiate il rapporto tra le due medie si rovescia per effetto della diversa composizione merceologica delle esportazioni bilaterali dell’uno verso l’altro (0,9% vs. 1,4%). La distribuzione delle linee tariffarie dell’Ue, in specie, è più spostata verso quelle superiori al 5%, con effetti maggiormente disincentivanti della domanda di prodotti esteri. Negli scambi di prodotti agricoli, invece, la protezione tariffaria degli Usa nel 2023 risultava decisamente più bassa di quella europea. Un’analisi più raffinata richiederebbe di tener conto di quanto valore aggiunto europeo sia compreso nel totale delle importazioni americane e viceversa. Va anche considerato il ruolo delle barriere non-tariffarie, i cui effetti non sono visibili come per le tariffe, ma si possono dedurre dalla dinamica dei flussi delle merci interessate e dai loro prezzi.
Trump ha radicalmente rovesciato questo quadro, triplicando il livello della tariffa di base su tutti i prodotti e alzandola a sei volte per molti prodotti, con incrementi differenziati per alcune categorie merceologiche. Su alcune di quelle più rilevanti, come i farmaceutici e i semiconduttori, non ha ancora precisato quale sarà il livello, con il risultato di accentuare l’incertezza e l’inquietudine tra le imprese. A rendere ancor più indeterminabile l’evoluzione del quadro concorrono due fattori, ovvero il rapporto delle tariffe applicate all’Ue con quelle sui concorrenti di altri paesi, e le contromisure eventualmente prese dall’Europa con le possibili reazioni americane.
Una penalizzazione relativamente più elevata dei produttori extra-UE rispetto alle imprese europee darebbe a queste ultime un vantaggio sul mercato americano, compensando in parte la sua maggior chiusura. Ad esempio, i dazi proibitivi imposti verso la Cina aprono nuovi spazi ai produttori europei in comparti quali la meccanica. Meno probabile che il trattamento riservato agli europei sia peggiore di quello adottato verso altri perché i primi rappresentano gli alleati di lunga data e quelli su cui l’America può continuare a contare. Per gli europei è, invece, molto problematico stabilire come reagire al nuovo protezionismo dell’America. Il ricorso a contromisure, già programmato, va impiegato come uno strumento per spingere gli USA a negoziare, piuttosto che come una opzione che possa giovare alla crescita europea. L’esperienza della depressione economica dallo Smoot-Hawley Act del 1930 al secondo dopoguerra mondiale insegna a non cadere nella trappola di una contesa tariffaria e di mirare invece a un equilibrio nelle condizioni che governano gli scambi commerciali.
Non sarebbe neanche un danno certo per l’Ue se accettasse di applicare tariffe meno alte di quelle del partner americano, sempre a condizione di una disparità limitata, in quanto la concorrenza di quest’ultimo non sembra così penetrante come quella asiatica, salvo che in alcuni comparti agricoli e del manifatturiero. In generale, preservando le sue normative e gli standard di prodotto per esigenze commerciali, sanitarie, di contrasto al cambiamento climatico e di protezione del consumatore da pratiche di imitazione di produzioni caratteristiche, l’Ue non restringe l’accesso al suo mercato ma obbliga ad adeguarsi alle sue regole, col risultato di pareggiare il campo per la concorrenza tra prodotti europei ed americani.
Il probabile innalzamento delle tariffe nel commercio tra Usa e Ue, anche se fosse limitato al livello base del 10%, comporterebbe ugualmente deviazioni merceologiche e geografiche delle correnti di scambio, rialzi di costi e di prezzi, insieme a effetti depressivi della domanda e della crescita in Europa come in America. L’incertezza sulla dimensione di questi spostamenti e sui tempi di aggiustamento ai nuovi segnali di mercato induce a rivedere verso il basso le proiezioni sul corso della crescita nei prossimi trimestri e ad assumere un atteggiamento di maggior cautela nelle decisioni di spesa delle famiglie e di investimento delle imprese.
Un primo effetto lo hanno avvertito le compagnie aeree che operano sulle rotte del Nord-Atlantico, che hanno visto un inconsueto calo della domanda. Anche la politica monetaria mostra tendenze alla cautela di fronte all’imprevedibile evoluzione del quadro macroeconomico, in specie, sul versante dei prezzi e dei rapporti di cambio tra le monete di riserva. La fiducia dei consumatori a marzo è peggiorata negli Usa, nell’area dell’euro, in Italia e Francia. In calo anche il clima di fiducia tra le imprese italiane, con attese negative sugli ordini e di aumento delle scorte.
In Italia, un riflesso dell’incertezza si è già manifestato nella programmazione economica del Documento di finanza pubblica: le proiezioni di crescita per il biennio 2025-2026 sono state ridimensionate rispetto alle previsioni iniziali, nella misura di sei decimi di punto percentuale (allo 0,6%) per l’anno corrente e di tre decimi (allo 0,8%) per il prossimo. Altrettanto è avvenuto per l’economia mondiale nelle valutazioni dei maggiori organismi internazionali. Secondo il Wto, il commercio mondiale, che nell’ottobre scorso era previsto espandersi quest’anno del 3%, probabilmente subirà una contrazione dello 0,2% a seguito delle misure tariffarie americane. Se si applicassero i dazi reciproci annunciati da Trump, la contrazione raggiungerebbe l’1,5% e colpirebbe particolarmente l’area Nord Americana. Un’analoga revisione al ribasso delle proiezioni di crescita è stata anticipata dal Fmi nel suo Rapporto di primavera appena uscito.
Tra tanta incertezza e prospettive negative, l’Italia sta dando prova di nervi saldi nella condotta della finanza pubblica, mantenendosi in linea con il percorso di riequilibrio tracciato nel quadro del Patto di Stabilità con l’Ue. Resta nondimeno intatta l’urgenza per il Paese di attuare profonde riforme che ridiano slancio ai fattori di crescita nella stabilità, e di tener fede all’impegno di portare a compimento in tempo gli investimenti compresi nel Pnrr. Parimenti, l’Ue dovrà mostrare capacità di riequilibrare il rapporto con l’amministrazione Trump e di sostenere gli sforzi dei paesi membri nel trovare una nuova via verso lo sviluppo.