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Dal Fondo monetario un taccuino a prova di grandi incertezze. La lettura di Polillo

Dalle previsioni del Fondo emerge una sorta di promemoria che riguarda la summa degli elementi di una buona politica economica. A partire da un rigore finanziario che non può venir meno, nemmeno quando si tratti di accrescere la spesa legata alla difesa. Che deve essere finanziata con gli strumenti tradizionali di finanza pubblica. Il commento di Gianfranco Polillo

Fino a che punto le nuove previsioni del Fondo monetario sono attendibili? Nella tabella prodotta e pubblicata sul sito, i dati hanno un volto rassicurante, considerati i drammi non sono economici e finanziari che il mondo sta vivendo. Dalla crisi del libero scambio e l’insorgere di politiche protezionistiche, fino alle guerre che ancora insanguinano l’Ucraina e la Palestina. Di fronte ad uno scenario così complesso, il prodotto mondiale dovrebbe ridursi dello 0,5% (dal 3,3 al 2,8%) nel corso dell’anno. Ma per poi aumentare di uno 0,2%, l’anno successivo. Ne farebbero le spese sia le economie avanzate che quelle emergenti, con uno scarto infinitesimale 0,4% contro uno 0,6%, durante il 2025. Ma con un recupero maggiore per gli emergenti l’anno successivo, in grado di mettere le cose quasi a posto.

Più interessante guardare all’interno dei due schieramenti. Tra le economie avanzate, a rimetterci più di tutti, rispetto ai risultati dello scorso anno, dovrebbero essere proprio gli Stati Uniti. Il loro ritmo di crescita, che nel 2024 era stato pari al 2,8%, si ridurrebbe all’1,8 nell’anno in corso ed all’1,7 per quello successivo. Con una perdita cumulata dell’1,1%. Quasi tre volte la media delle economie avanzate. Non certo un buon affare per Donald Trump che rischia di assumere la veste dell’apprendista stregone. Altro che “Make America Great Again”, le previsioni del Fondo indicano il contrario.

Per l’Italia potrebbe non andare così male. Il cumulato di due anni è comunque, seppur di un minimo (0,1%), positivo. Meglio della Francia (-0,1%), ma non della Germania, a quanto pare destinata ad una specie di piccolo boom, considerato il risultato positivo cumulato (+1,1%). In parte un’illusione ottica, dovuta al fatto che lo scorso anno il Pil era diminuito dello 0,2 per cento, e che per l’anno in corso la previsione è “crescita zero”. Mentre tutto il risveglio dovrebbe concretizzarsi nel 2026, con una crescita di 0,9 punti. Nonostante questi limiti, una buona notizia per l’Italia considerati i legami economici tra i due Paesi.

Sul fronte opposto, quello delle economie emergenti, balza agli occhi la posizione dell’India, che vedrebbe crescere il suo cumulato di sviluppo del 3,2%, rispetto ai valori dell’anno passato. Le previsioni di crescita sono del 6,2 e del 6,3% nei due anni consecutivi. A dimostrazione del fatto che molto spesso, come accade nella vita, tra i due litiganti il terzo gode. La Cina, infatti, perde in termini cumulati quanto perdono gli Stati Uniti. Segno evidente che le politiche muscolari non sono le più convenienti. Come mostra, del resto, il caso dell’Arabia Saudita: altro Paese, in cui la politica della moderazione e dell’interlocuzione è ormai di casa. Il cumulato indica una cifra del 2,4%. Di gran lunga superiore a quella della galassia del Far East. Destinata a fermarsi a meno della metà.

Questi quindi i dati, con variazioni appena marginali, che ripropongono il problema da cui siamo partiti. Sarebbero giustificati se l’economia mondiale non fosse avvolta nella nebbia dell’incertezza. A sua volta conseguenza di trasformazioni traumatiche, segnate da rotture profonde nel modo d’essere di una storia passata che si è sviluppata con continuità nei precedenti 80 anni. In una fase in cui il fragore delle armi e la continua minaccia, da parte russa, di poter anche ricorrere alla ritorsione nucleare, la fa da padrona.

Lo stesso Fondo Monetario, almeno a giudizio di chi scrive, si è reso conto di questa contraddizione. Non lo ha potuta esplicitare per ragioni evidenti. Forzare la mano non avrebbe fatto altro che accentuare quegli elementi di incertezza che già pesano sull’orizzonte. Contribuendo, così, a rendere più fosco un quadro che, invece, ha bisogno di una maggiore serenità. Il problema è stato, per così dire, risolto in sede di commento. Che è stato affidato a Pierre-Olivier Gourinchas, un economista che è anche il Capo servizio studi del Fondo stesso.

Lo ha fatto in un paper che già nel titolo metteva in luce quella contraddizione di cui si diceva in precedenza. Paper che recita: “L’economia globale entra in una nuova era”. Ipotesi del tutto opposta al concetto di “business as usual”. A quell’ordinaria amministrazione che le proiezioni quantitative precedentemente indicate lascerebbero intendere. L’esperienza passata, soprattutto quella degli ultimi anni, dimostra infatti il contrario. Il passaggio dall’iper-globalizzazione degli anni 90 alla slowbalisation, che fu conseguenza della Global financial crisis del 2007-08, segnò una cesura profonda delle vecchie relazioni internazionali, che si riflesse sui fondamentali dei diversi Paesi e delle diverse aree. E qualcosa di simile avvenne in conseguenza dell’epidemia di Covid. Che a sua volta ridisegnò i perimetri delle grandi catene internazionali del valore.

“Il sistema economico globale – scrive Gourinchas – sotto il quale la maggior parte dei paesi ha operato negli ultimi 80 anni si sta resettando, introducendo il mondo in una nuova era. Le regole esistenti sono messe in discussione mentre quelle nuove devono ancora emergere”. A seguito di una crescita del sistema tariffario effettivo americano “che ha superato i livelli raggiunti durante la Grande Depressione” l’incertezza epistemica e l’imprevedibilità politica sono diventati predominanti, riflettendosi sui principali elementi della situazione economica.

Sullo sfondo è una contrazione del commercio mondiale destinato a ridursi più della produzione industriale. Contrazione che avrà conseguenze diverse sui singoli Paesi. In generale, tuttavia, spingerà a soluzioni produttive di carattere non ottimale, destinate, pertanto, a comprimere “la concorrenza e l’innovazione” a tutto vantaggio delle posizioni di rendita. Difficile fare previsioni a causa di “approvvigionamenti globali che possono amplificare gli effetti delle tariffe e dell’incertezza”. C’è quindi il rischio del propagarsi in modo disordinato di queste spinte e contro spinte, destinate a produrre effetti cumulativi “come abbiamo visto durante la pandemia”. Alle quali le stesse istituzioni finanziarie non potranno che rispondere accentuando i fattori di crisi. Il forte calo dei prezzi del petrolio ne è già segnale premonitore.

Per ridurre il perimetro dell’incertezza sono auspicabili nuove intese commerciali, il superamento degli squilibri interni ai singoli Paesi ed aree economiche integrate. “Per l’Europa ciò significa spendere di più in infrastrutture e per accelerare la crescita della produttività”. Per la Cina accentuare il sostegno alla domanda interna, per gli Stati Uniti “intensificare il consolidamento fiscale”. Scelte in grado di fornire la cornice all’interno della quale collocare poi la politica dei singoli Paesi. Che richiede le cure più volte indicate, sia per i Paesi più fragili che per quelli che hanno maggiori spazi fiscali.

Ed ecco allora una sorta di promemoria che riguarda la summa degli elementi di una buona politica economica. A partire da un rigore finanziario che non può venir meno, nemmeno quando si tratti di accrescere la spesa legata alla difesa. Che deve essere finanziata con gli strumenti tradizionali di finanza pubblica. Sullo sfondo resta, tuttavia, la “necessità di una crescita più forte”. Che rimane essenziale per il miglioramento del tenore di vita degli abitanti della Terra. Le mappe del passato indicano valori disomogenei tra le diverse aree. Ma questo risultato non fu colpa della globalizzazione, bensì della forza intrinseca del progresso tecnologico e dell’automazione la cui gestione resta incardinata nella responsabilità collettiva. A quest’ultima, pertanto, il compito di trovare il giusto equilibrio tra quel ritmo ed i disagi sociali che ne possono derivare.


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