Le narrative istituzionali occidentali, in particolare europee, faticano a interpretare gli eventi dell’attuale fase internazionale: fuori scala, instabile, priva di precedenti recenti. L’intervento di Igor Pellicciari
Dallo scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky alla politica dei dazi, si susseguono episodi che sfuggono agli schemi classici. Per spiegarli all’opinione pubblica, si ricorre spesso alla scorciatoia di leggere la politica estera come fosse una saga morale, trattando gli Stati come personaggi di un reality: ora buoni, ora cattivi, sempre in balìa delle emozioni e dei propri tratti caratteriali. Basta un gesto, una frase fuori contesto, per ribaltare i ruoli in scena.
Questa semplificazione non aiuta a capire. Anzi: alimenta la confusione nella percezione collettiva, aggravando una crisi di legittimità della comunicazione istituzionale già compromessa durante la gestione pandemica. Anche in questo caso, l’evoluzione delle politiche di aiuto tra gli attori in campo offre una chiave di lettura per comprendere la logica politica e gli equilibri di potere che sorreggono il nuovo ordine mondiale in formazione.
Kyiv, il beneficiario-alleato
Lo showdown nello Studio Ovale ha incrinato alcuni assunti che hanno dominato la narrazione occidentale della guerra in Ucraina. Il più importante: che gli Stati Uniti potessero imporre tempi e modalità di un cessate il fuoco a Kyiv, in virtù della sua dipendenza dall’assistenza americana. Questa convinzione ignora la relazione politica del tutto anomala che si è creata tra il governo ucraino e il fronte occidentale, costruita attorno a un flusso di aiuti senza precedenti. Il ruolo strategico assegnato a Kyiv nella resistenza all’invasione russa ha comportato il suo coinvolgimento diretto nella definizione e gestione degli aiuti, soprattutto militari.
Ne è nato un caso unico: un beneficiario-alleato, elevato dai donatori a interlocutore di pari livello, legittimato politicamente e dotato di un proprio margine d’azione. Nel corso della guerra, Kyiv ha spesso esercitato questo margine, talvolta scontrandosi con i donatori — come nel caso della cancellazione della visita del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier (aprile 2022), rifiutata da Kyiv in segno di dissenso politico. Ergo, al di là dei toni di Zelensky, non sorprende che un beneficiario-alleato di questo tipo abbia opposto resistenza al repentino cambio di orientamento del donatore.
Non solo Zelensky
Di riflesso, appare ingenua l’idea — ancora presente nel mainstream — che per gli Stati Uniti il vero ostacolo sia Zelensky, e che rimuoverlo basterebbe a superare le resistenze ucraine. Il quadro è più complesso. A Kyiv si è consolidata una leadership che non si esaurisce nel presidente. Il prolungato ruolo di beneficiario-alleato, invece di indebolirla, l’ha rafforzata con il protrarsi del conflitto.
Questa leadership è integrata nel sistema politico, controlla l’apparato amministrativo ed è il vero centro del policy making e del policy enforcement ucraino. Tra gli errori di valutazione di Trump vi è stato il concentrare la polemica su Zelensky — tema utile in campagna elettorale, ma dannoso in politica estera. Dal punto di vista degli aiuti, è stato un errore ancor più grave trattare il beneficiario-alleato come un beneficiario classico degli aiuti Usa. Parlare all’Ucraina con gli stessi toni usati per l’Afghanistan.
Dazi: la fine dell’aiuto gratuito
Alla luce delle dinamiche di aiuto internazionale, anche la politica dei dazi va letta in un contesto ben più ampio rispetto a quello offerto dall’infotainment mediatico, che continua ad attribuirli all’imprevedibilità caratteriale di Trump. In realtà, si inserisce in un radicale cambiamento degli obiettivi primari della politica estera americana, che comporta un riadattamento sia delle politiche di aiuto sia delle risorse impiegate.
È il ritorno di un processo storico: Washington sostituisce progressivamente gli obiettivi politico-militari con priorità economico-finanziarie. Con lo spostamento dell’asse geopolitico verso Est e l’emergere di un contesto eurasiatico e multipolare, il vecchio assetto occidentale uscito dalla Seconda guerra mondiale ha perso centralità strategica. In questo nuovo scenario, Washington non è più disposta a dare aiuti, fare concessioni o investire risorse per sostenere un primato strategico-militare che non considera più né utile né sostenibile. Si riposiziona. E, laddove non ha più un interesse geopolitico, pretende un ritorno economico, presentando per primi il conto ai beneficiari occidentali di decenni di sostegno passato. È la fine dell’ Aiuto gratuito.
La vera novità è che Trump applica questa logica con un uso sistematico dei dazi che non rappresentano una deviazione spregiudicata della politica commerciale, ma strumenti di politica estera. Modulati a seconda del contesto, possono essere armi ibride in guerre commerciali oppure forme di aiuto mascherato in accordi di cooperazione economica. Con una regola costante: come in ogni relazione di aiuto, il donatore punta a dare le carte. E a guadagnarci più del beneficiario.
Pace giusta vs dazi ingiusti
Il cambio di paradigma americano mette a nudo le difficoltà del fronte occidentale: spiegarsi alle proprie opinioni pubbliche e, insieme, concordare una strategia comune. Ci si rifugia nelle narrative classiche, ormai scariche, che moralizzano la politica estera. Dopo la retorica della “pace giusta”, oggi si prova a far quadrare il cerchio bollando i dazi come “ingiusti”. Questo rivela una fragilità più profonda: quella di classi politiche che per decenni hanno vissuto di rendita all’ombra della politica estera americana, applicandone lo schema in automatico, senza bisogno di pensiero autonomo.
Ora che quello schema non offre più copertura garantita, emergono limiti strutturali: mancano gli strumenti, manca la visione, manca l’abitudine a negoziare. Dopo aver dichiarato guerra commerciale alla Cina e militare alla Russia, l’Europa farebbe bene a evitare anche uno scontro politico con gli Stati Uniti.
Non perché Washington sia buona, ma perché ha maturato un enorme credito politico in otto decenni di aiuti verso il fronte occidentale. Da Bruxelles a Roma, da Parigi a Berlino, trattare alla pari con Washington è — oggi come sempre — un’illusione. Come lo è per qualsiasi beneficiario davanti a un (ex) donatore dominante.