Serve una risposta. Una risposta all’altezza delle ambizioni. L’Italia ha i numeri, ha il know-how, ha il potenziale. Ma non può permettersi di perdere altro tempo. I dazi non sono solo barriere: sono leve di politica economica. E se l’Europa apre uno spiraglio, Roma deve trasformarlo in una porta. L’analisi di Roberto Arditti
Ci sono numeri che raccontano storie meglio di mille discorsi. E quelli postati da Gianclaudio Torlizzi su X fanno esattamente questo. Dicono che l’Unione Europea applica alla Cina dazi medi intorno al 4%, mentre Pechino, senza troppi complimenti, risponde con una barriera del 20% su Bruxelles, e picchi su altri partner asiatici come Vietnam (46%) e Malesia (49%). Numeri che da soli delineano un quadro: la competizione globale non è una passeggiata, è una guerra commerciale dove chi ha visione gioca d’anticipo e chi si perde in burocrazia resta indietro.
E qui l’Italia ha un’occasione. Sì, un’occasione concreta e misurabile. Il nostro settore manifatturiero – secondo i dati del Mimit – è il secondo in Europa dopo la Germania, con un saldo positivo che nel 2023 ha superato i 60 miliardi di euro. In particolare, la meccanica strumentale – macchinari, impianti, robotica – rappresenta una delle eccellenze del made in Italy, con quote di mercato rilevanti anche in Asia. Tradotto: mentre la Cina alza i dazi a tutti e l’Europa li tiene bassi, le aziende italiane hanno una finestra per conquistare terreno. Ma serve una regia. E serve adesso.
Il contesto, tuttavia, è più complesso di quanto appaia. L’Unione Europea ha già avviato un’indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi. Bruxelles teme (a ragione) una concorrenza sleale, alimentata da sovvenzioni statali che alterano il mercato. Pechino, intanto, consolida il suo primato su batterie, pannelli solari e tecnologie green: secondo l’Iea, oltre l’80% della produzione globale di fotovoltaico arriva dalla Cina. La Germania comincia a fare i conti con l’eccessiva esposizione industriale verso Est. E l’Europa si interroga su come tutelare il proprio tessuto produttivo senza scivolare in un protezionismo sterile.
In questo scenario, l’Italia dovrebbe essere la più veloce a reagire. Perché non ha tempo da perdere. Perché non può permettersi di essere terra di conquista per chi importa low-cost mentre le nostre Pmi faticano a reggere i colpi. Perché, come ha detto Torlizzi, “il Governo deve aiutare” le imprese italiane a sfruttare il differenziale dei dazi, prima che qualcuno chiuda la finestra. E allora servono scelte chiare.
Primo: una politica industriale proattiva, che premi chi esporta e investe. Secondo: una diplomazia economica che non si limiti a seguire la linea di Berlino o Parigi, ma porti avanti gli interessi del nostro sistema produttivo. Terzo: strumenti operativi – incentivi, semplificazioni, accesso al credito – per rafforzare le filiere strategiche.
Perché nel frattempo altri si muovono. La Spagna sta già spingendo per conquistare quote sui mercati asiatici. E c’è chi, dentro l’Unione, rema nella direzione opposta: potenti gruppi di importatori che sognano un’Italia trasformata in piattaforma logistica per merci asiatiche, rinunciando di fatto a produrre in casa ciò che potremmo vendere nel mondo.
Serve una risposta. Una risposta all’altezza delle ambizioni. L’Italia ha i numeri, ha il know-how, ha il potenziale. Ma non può permettersi di perdere altro tempo. I dazi non sono solo barriere: sono leve di politica economica. E se l’Europa apre uno spiraglio, Roma deve trasformarlo in una porta.
Il gioco è apertissimo. E chi ha il coraggio di muoversi adesso, domani sarà al centro. Gli altri, come spesso accade, resteranno a guardare.