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Il caccia di sesta generazione franco-tedesco-spagnolo rischia di arenarsi (di nuovo)

Il programma Scaf, il progetto franco-tedesco-spagnolo per sviluppare un caccia di sesta generazione, si trova ancora una volta al centro delle tensioni industriali tra i partner. Il ceo di Dassault Aviation, Éric Trappier, ha espresso le difficoltà nel raggiungere un accordo paritario con Airbus, suggerendo la possibilità di una fuga in avanti di Parigi verso una soluzione autonoma. Nel frattempo, mentre lo Scaf vacilla, il Gcap, con la sua struttura di governance paritaria, continua a guadagnare terreno (nonché investitori)

Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici ma, nel panorama della difesa europea, e in particolare quando in ballo c’è Parigi, sarebbe forse più appropriato parlare di corsi e ricorsi industriali. È quanto sta accadendo (di nuovo) riguardo allo Scaf (Système de combat aérien du futur), il programma di sesta generazione franco-tedesco-spagnolo, tornato ancora una volta nell’occhio del ciclone a causa degli atteggiamenti ondivaghi d’oltralpe.

Il ceo di Dassault Aviation, Éric Trappier, lo ha detto chiaro e tondo: “Ci siamo dentro. Dassault Aviation non vuole certo non essere coinvolta. Ma è molto difficile”. Lo ha spiegato in audizione davanti alla commissione Difesa dell’Assemblea nazionale francese, dove ha illustrato la complessità dei rapporti tra i tre partner, e in particolare tra Dassault e Airbus (nelle sue declinazioni tedesca e spagnola). “Non siamo in grado di distribuire il lavoro secondo le nostre idee”, ha sottolineato. Secondo Trappier il problema non è solo tecnico o organizzativo, ma strutturale. “Dobbiamo essere convincenti ancora di più, visto che siamo uno contro due, per prendere decisioni”. In altre parole, Dassault — azienda madre del Rafale e simbolo dell’autonomia industriale francese — si trova spesso in minoranza nei processi decisionali del programma.

E qui il deja vu si fa inevitabile. Già in passato, infatti, la Francia ha dimostrato insofferenza verso i progetti di sviluppo congiunto. Ne è prova il caso del Rafale stesso, nato dalla rottura con il consorzio Eurofighter per divergenze su requisiti operativi e industriali. E oggi, a giudicare dalle parole del ceo di Dassault, la tentazione dell’autonomia torna a farsi sentire. “Se non troviamo un accordo soddisfacente, dovremo considerare altre opzioni”.

Tutti i problemi dell’approccio “franco-francese”

L’atteggiamento francese non si esaurisce in una semplice difesa degli interessi industriali nazionali, ma riflette una visione più ampia, in cui Parigi si percepisce come garante e traino dell’autonomia strategica europea. “Le capacità dell’industria della difesa Ue risiedono innanzitutto in Francia”. Si tratta di una postura consolidata, alimentata da decenni di investimenti, dalla dissuasione nucleare e dalla centralità della Défense nel sistema-Paese francese. Questo approccio si traduce, inevitabilmente, in una tensione costante quando si parla di progetti multilaterali, con la Francia che tende a porsi come punto di riferimento, se non come guida unica, generando attriti con gli altri partner. 

A questa dinamica si sommano anche problemi spiccatamente tecnici, dalla gestione della proprietà intellettuale alla definizione dell’architettura dei sistemi, fino alla simulazione e al combat cloud, ogni nodo tecnico diventa un potenziale fattore di stallo. La cooperazione, in teoria paritaria, rischia così di diventare un campo minato di compromessi, lentezze e sfiducia, e di trasformare un altro progetto europeo in un progetto “franco-francese”.

Le incertezze sullo Scaf portano il Gcap in vantaggio

Ma mentre lo Scaf traballa, c’è chi invece avanza. Il programma Gcap — lanciato da Regno Unito, Italia e Giappone — appare più solido nella sua governance e nella ripartizione dei compiti. Una cooperazione trilaterale che si fonda su logiche industriali condivise e su una visione geopolitica convergente, in particolare nel teatro indo-pacifico e nella complementarietà tra la Nato e le alleanze regionali. Il contrasto tra Scaf e Gcap è evidente. Da una parte, un progetto europeo bloccato da tensioni interne, frizioni su leadership, proprietà intellettuale e la costante minaccia dell’uscita francese. Dall’altra, un’iniziativa che, seppur nata recentemente, sembra aver già trovato un equilibrio pragmatico tra ambizioni tecnologiche e sostenibilità politica. Non è infatti un caso se diversi Paesi (Australia, Canada e Arabia Saudita) — tutti interessati a non rimanere indietro sulla sesta generazione — stanno valutando a vario titolo di entrare nel programma anglo-italo-nipponico. Evidentemente, il pragmatismo paga più del protagonismo.


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