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Il fronte attorno a Israele continua a surriscaldarsi. Le tensioni regionali lette da Dentice

Diciotto mesi dopo il 7 ottobre, la guerra si è allargata in un confronto regionale a geometria variabile. Al centro c’è l’Iran, con la questione nucleare ancora aperta e una crescente competizione tra potenze nel Levante. Per Dentice, analista nell’Osservatorio Mediterraneo (OsMed) dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V,  Israele è “sull’orlo di un burrone” anche per via delle fratture interne che Netanyahu tenta di coprire con l’espansione del conflitto

Diciotto mesi dopo l’attacco terroristico con cui Hamas ha aperto l’attuale stagione di guerra, il 7 ottobre 2023, il conflitto nella Striscia di Gaza si è definitivamente trasformato in qualcosa di più grande e più complesso: una guerra a bassa intensità ma ad alta instabilità, incastonata in un sistema regionale in ebollizione. Mentre le forze armate israeliane continuano le operazioni a Gaza e il governo di Benjamin Netanyahu fronteggia una crescente pressione interna e internazionale, il baricentro strategico si sposta. Gli occhi di Gerusalemme – e di Washington – sono puntati su Teheran.

Nelle ultime ore, il primo ministro israeliano è tornato negli Stati Uniti per incontrare il rappresentante al Commercio, Jamieson Greer, e il segretario Howard Lutnick. Ufficialmente, si è parlato di tariffe — fonti israeliane dicono che Tel Aviv è “amareggiata”, perché mentre il governo ha tolto ogni barriera commerciale con gli Usa, nello stesso giorno Donald Trump ha imposto una tariffa del 17%. Ma il timing e la composizione della delegazione suggeriscono che ci sia ben altro sotto la superficie.

Netanyahu non sarebbe tornato per la seconda volta in due mesi alla Casa Bianca se non fosse che sul tavolo dello Studio Ovale non ci fosse qualcosa di più corposo dei dazi per la sicurezza nazionale israeliana. Da qualche giorno gli israeliani fanno filtrare ai media l’ipotesi di un attacco missilistico iraniano su larga scala — forse anche mosso da errori di calcolo tattico e strategico di Teheran, che si sente sotto pressione. Che queste informazioni siano parte dei dati di intelligence al momento lo confermano movimenti come l’arrivo di una nuova portaerei statunitense tra le acque del Medio Oriente, il rafforzamento delle difese attorno a Diego Garcia — base Usa nell’Indiano in cui tra l’altro stazionano almeno sei B-2 stealth usati già sullo Yemen come messaggio politico — e l’invio di una seconda batteria antiaerea Thaad sul territorio israeliano.

L’Iran continua ad agitare lo spettro di una “Operazione Promessa Vera 3”, evocata a più riprese dai comandanti dei Pasdaran. E intanto, con Hezbollah attivo sul fronte nord e gli Houthi che destabilizzano il Mar Rosso, prende forma uno scenario in cui la guerra a Gaza è solo una delle manifestazioni visibili di un confronto regionale più profondo. Gli Stati Uniti restano l’unico garante strategico per Israele, ma anche la variabile più critica nei calcoli iraniani.

“I riflessi della guerra a Gaza si riversano su tutto l’arco mediorientale”, commenta Giuseppe Dentice, analista nell’Osservatorio Mediterraneo (OsMed) dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V, con cui Formiche.net ha analizzato mensilmente l’evoluzione della crisi sin dal primissimo giorno.

Nel ragionamento di Dentice, l’Iran resta al centro della tensione strategica e diplomatica che percorre la regione. “La vera incognita è cosa farà Teheran”, spiega, facendo riferimento a un contesto che si fa sempre più instabile. Il regime degli ayatollah è costantemente sotto pressione di Israele e Stati Uniti, che ne seguono i movimenti con attenzione minacciosa. “La dinamica iraniana è usata per cercare di alzare l’attenzione internazionale — dice Dentice — ma si inserisce in un contesto molto pericoloso che non deve essere sottovalutato”.

Accanto alla dimensione securitaria, persiste poi l’incognita sul nucleare. “Rimane ancora in ballo la questione,” osserva l’analista, sottolineando che Teheran “ha mostrato una sorta di apertura verso una modalità di colloquio indiretta, attraverso l’inserimento dell’Oman da mediatore”. Tuttavia, avverte, “le posizioni statunitensi e israeliane inducono a moderare qualsiasi ottimismo o tentativo di mediazione.” Il quadro è complicato dalla postura dell’amministrazione americana: “Trump da questo punto di vista è contraddittorio”, dice l’esperto del Pio V, “perché se da un lato spinge per mostrare forza e assertività, dall’altro apre a possibili dialoghi: però non nello stile ucraino, bensì in una modalità mirata, diretta, e soprattutto quasi unilaterale, imponendo a Teheran l’accettazione di uno schema senza portare le dinamiche diplomatiche per le lunghe”.

Secondo Dentice, questo tipo di approccio — che tocca anche la visione transazionale che riguarda i dazi ai paesi della regione — si iscrive in un quadro regionale ad altissima instabilità, dove l’unica possibilità di de-escalation passa da Washington e Tel Aviv. “Gli Stati Uniti e Israele sono al centro delle dinamiche, e in realtà gli unici in grado di poter essere anche in grado di disinnescare queste situazioni”, spiega. Ma il tempo stringe: “Nel breve-medio periodo mostrano segnali di pericolo. Nel lungo periodo, se dovessero mantenersi così, fanno presagire scenari poco gestibili, anche in termini militari e diplomatici”.

Lo squilibrio sistemico ha effetti visibili anche nella parte settentrionale dello scacchiere. In particolare, l’analista sottolinea la destabilizzazione ancora in corso nella fascia indo-mediterranea a causa degli Houthi, ora centro delle operazioni militari americane, e la crescente assertività israeliana lungo l’asse Libano-Siria. Tel Aviv, a suo avviso, starebbe tentando di sfruttare le tensioni nella regione siriana ridosso del confine libanese, per creare un cuneo attraverso la comunità drusa e usarla come leva contro il governo siriano. Un’operazione, questa, che non lascia indifferenti gli altri attori regionali.

“La Turchia è fortemente preoccupata dall’attivismo israeliano”, osserva Dentice, “e non a caso è riuscita a ottenere la possibilità di insediare una base militare nei pressi di Palmira, nella Siria centrale, un’area strategica verso il sud”. Queste mosse evidenziano il ritorno a una logica competitiva tra potenze regionali, non limitata all’antagonismo israelo-iraniano. “La competizione tra attori è sempre più crescente — afferma — e ognuno mira a imporre il proprio standard sugli altri”. Una dinamica che si traduce, sempre più visibilmente, nel ritorno del concetto di “sfera di influenza”, soprattutto “nel Levante tra Gaza, Libano e Siria”. Ma, avverte Dentice, “è una dinamica molto pericolosa che non dovrebbe rassicurarci, perché ogni minimo squilibrio rischia di diventare un boomerang su tanti contesti.”

Questo quadro intra-regionale e internazionale, spiega l’esperto, è anche effetto della condizione interna a Israele, in bilico tra mantenimento del potere e tensioni profonde. L’espansione delle operazioni militari serva anche a ridefinire gli equilibri territoriali: “C’è un’iniziativa che mira in maniera inequivocabile alla smobilitazione della popolazione palestinese della Striscia”, con possibili sbocchi verso paesi terzi — disponibili ad accogliere i Gaza? Parallelamente, prosegue l’operazione Iron Wall, con l’obiettivo di spingere i palestinesi della Cisgiordania verso il confine giordano, e consolidare l’annessione progressiva dei territori, oggi ridefiniti ufficialmente come “Giudea e Samaria — ricorda Dentice — ufficialmente definiti in questo modo per volere del governo israeliano che sta cancellando la definizione di West Bank”.

Una radicalizzazione che, secondo l’analista, serve a mascherare le fratture interne: “Non si tratta più solo degli scontri con la Corte Suprema o con i servizi segreti, ma anche di tensioni con i militari, e di tutte le pressioni legate alle indagini sullo stesso Netanyahu.” Il rischio, conclude, è che Israele stia “sull’orlo di un burrone”, in una crisi che potrebbe allargare la frattura sociale e, secondo alcuni intellettuali israeliani, persino sfociare in una guerra civile.

(Foto: X, @IDF)


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