Il “panican” di Trump forse è proprio questo: una spinta tutta americana a riprendersi il timone. Con tutte le contraddizioni, le incertezze, i rischi del caso. Ma anche con la consapevolezza che, nel mondo di oggi, chi decide davvero non può più stare solo nei consigli di amministrazione. Deve stare – e tornare a stare – alla Casa Bianca
Per trent’anni il potere ha avuto un indirizzo preciso: sede legale a Washington, sede operativa a Wall Street. La politica come cornice, la finanza come motore. I governi inseguivano i mercati, i manager orientavano le scelte pubbliche, le grandi corporation scrivevano le regole – spesso non scritte – della globalizzazione. Poi è arrivato Trump. E con lui una stagione in cui il decisore politico torna al centro, non più notaio dell’economia ma regista della strategia.
I dazi annunciati (di nuovo) dal tycoon non sono solo uno strumento commerciale, ma un messaggio politico. Trump parla agli elettori dell’Ohio e della Pennsylvania, ma anche agli amministratori delegati di Manhattan (o del repubblicano Texas). E lo fa con uno stile che è ormai diventato marchio: “panican”, come ama dire lui. Una parola che fonde “panic” e “American”, evocando quel senso di urgenza patriottica che giustifica ogni virata di rotta, ogni pugno sul tavolo.
La Casa Bianca, nella visione trumpiana, non è più lo sportello delle relazioni istituzionali dei mercati, ma la cabina di regia dell’interesse nazionale. E Wall Street, abituata per decenni a dettare l’agenda, si ritrova ora spettatrice (preoccupata) di un processo che la riguarda direttamente ma che non controlla più fino in fondo.
Attenzione: questo non significa che la politica possa ignorare la finanza. Nessun presidente americano può davvero permettersi uno scontro frontale con il mercato. Ma il punto è che ora è la politica a guidare il gioco, a definire i margini, a stabilire le priorità. È un cambiamento che va oltre Trump e che riguarda anche l’Europa, sempre più tentata da un ritorno a politiche industriali di stampo interventista.
Dopo anni in cui le imprese globali sembravano muoversi in un mondo senza confini – dove contava solo la massimizzazione dell’efficienza – oggi la logica è un’altra: sicurezza, resilienza, sovranità. Termini politici, non economici.
La Cina non ha mai creduto nella separazione tra pubblico e privato, e ora gli Stati Uniti sembrano voler giocare la stessa partita. Con un’idea precisa: riportare le decisioni strategiche nelle stanze della politica, anche a costo di turbare l’equilibrio dei mercati.
Wall Street, naturalmente, non resta a guardare. Adatta strategie, rafforza la presenza nei corridoi del potere, si prepara al nuovo scenario. Ne è dimostrazione precisa il ruolo di Scott Bessent, ascoltato (e temuto) Segretario al Tesoro dell’amministrazione Trump, certamente il più favorevole alla moratoria di 90 giorni sui dazi (ha lavorato per anni con GeorgeSoros). Ma il segnale è chiaro: oggi è la politica a comandare. O almeno, a provarci.
E forse è proprio questo il cuore del “panican”: una spinta tutta americana a riprendersi il timone. Con tutte le contraddizioni, le incertezze, i rischi del caso. Ma anche con la consapevolezza che, nel mondo di oggi, chi decide davvero non può più stare solo nei consigli di amministrazione. Deve stare – e tornare a stare – alla Casa Bianca.