L’incontro ravvicinato a San Pietro ha il sapore di un risveglio amaro. Non c’è più spazio per la retorica. Zelensky dovrà trattare, dovrà capire che Trump è disposto a parlare di pace, ma alle sue condizioni, e che ogni debolezza verrà colta come un’occasione per riscrivere la partita. Il commento di Roberto Arditti
Certe fotografie non sono semplici istantanee, ma spartiacque nella storia. È il caso dello scatto che ritrae Donald Trump e Volodymyr Zelensky, domenica mattina nella navata centrale della Basilica di San Pietro, pochi minuti prima dell’inizio dei funerali di Papa Francesco. Un gesto rapido, una stretta di mano trattenuta appena un istante più del necessario, uno scambio di sguardi che dice molto più di mille comunicati ufficiali.
Non c’era bisogno di parole, né di cerimonie. In quel silenzio carico di emozione, Zelensky ha capito, finalmente, che il suo destino politico e quello del suo Paese passano proprio da quell’uomo davanti a lui. Non dalla burocrazia internazionale, non dai salotti europei, ma da Donald Trump, il presidente americano tornato sulla scena con l’intenzione di riscrivere tutte le regole del gioco, anche quelle della pace in Ucraina.
Oggi, guardando quella foto, appare chiaro che il colloquio alla Casa Bianca di qualche settimana fa è stato gestito male da Kiev. Zelensky si era presentato con l’approccio tradizionale: sottolineare la causa della libertà, ribadire la necessità di armi e sostegno incondizionato, appellarsi ai valori condivisi. Non aveva capito che Trump ragiona su un altro piano: quello della forza, della trattativa diretta, dell’interesse nazionale prima di tutto. L’incontro ravvicinato a San Pietro ha il sapore di un risveglio amaro. Non c’è più spazio per la retorica. Zelensky dovrà trattare, dovrà convincere, dovrà capire che Trump è disposto a parlare di pace, ma alle sue condizioni, e che ogni debolezza verrà colta come un’occasione per riscrivere la partita.
La Basilica, teatro di un addio solenne al Papa che aveva cercato di dare voce ai dimenticati del mondo, ha offerto il palcoscenico ideale a questa presa di coscienza: siamo entrati in una fase nuova. Meno valori universali proclamati a gran voce, più rapporti di forza negoziati senza ipocrisie. Quel breve incontro, immortalato dagli obiettivi, sarà ricordato come il momento in cui Zelensky ha capito che il suo ruolo non è più quello dell’eroe accolto ovunque come simbolo, ma del capo di Stato che deve sedersi a un tavolo difficile, con un interlocutore duro e imprevedibile (ma utile alla sua causa) che è Trump ed un altro interlocutore che vorrebbe eliminarlo dalla faccia della terra, cioè Putin: potrà anche non stargli simpatico il primo, ma è l’unica speranza che ha.
In quell’immagine c’è il futuro della crisi ucraina, e forse anche il futuro dell’ordine mondiale: non più affidato alle grandi narrazioni, ma stretto nei pugni di chi saprà imporsi, trattare, accettare compromessi dolorosi. Trump lo sa da sempre. Zelensky lo ha capito domenica, davanti all’altare della cristianità, mentre il mondo piangeva il Papa che più aveva creduto nel dialogo. Adesso inizia un altro tempo, e le fotografie, come sempre, sono arrivate prima delle parole.