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Meloni meglio di Trump alla Casa Bianca. Arditti spiega perché

Il dialogo con Donald Trump ha messo in evidenza cinque punti chiave che spiegano perché l’Italia è tornata al centro del gioco e perché Meloni ha dimostrato di essere molto cresciuta in questi mesi. Il commento di Roberto Arditti

Nello Studio Ovale, giovedì 17 aprile, Giorgia Meloni ha fatto esattamente ciò che si chiede a un capo di governo in tempi complessi: ha parlato chiaro, ha rappresentato il suo Paese con autorevolezza e ha portato a casa risultati concreti. Nessuna scena teatrale, nessuna ricerca dell’effetto: solo sostanza politica. Il dialogo con Donald Trump ha messo in evidenza cinque punti chiave che spiegano perché l’Italia è tornata al centro del gioco e perché Meloni ha dimostrato di essere molto cresciuta in questi mesi.

Primo punto: il 2% del Pil per la difesa. È l’annuncio che segna un cambio di passo. L’Italia si allinea finalmente all’impegno Nato non solo con le parole, ma con le cifre. E lo fa senza complessi, in un momento in cui l’Europa è chiamata a difendere se stessa e il proprio spazio strategico. Non si tratta solo di aumentare il bilancio della Difesa, ma di dare un segnale politico chiaro: Roma vuole essere protagonista nel sistema di sicurezza dell’Occidente.

Secondo punto: Meloni ha parlato di Occidente meglio dello stesso Trump. Mentre il presidente americano manteneva il suo consueto tono spigoloso e domestico, la premier italiana ha offerto una visione lucida, inclusiva, multilaterale. Ha parlato di alleanze, di valori condivisi, di responsabilità comuni. Ha ricordato che la democrazia non si difende con i tweet, ma con le scelte politiche coerenti. E lo ha fatto da leader europea, consapevole del proprio ruolo.

Terzo punto: il sostegno all’Ucraina. Su questo dossier Meloni non ha fatto un passo indietro. Ha confermato l’impegno dell’Italia accanto a Kyiv, ribadendo che la difesa dell’Ucraina è una questione di principio prima ancora che di sicurezza. Un messaggio importante, rivolto non solo a Washington ma anche a quelle capitali europee che cominciano a guardare con stanchezza al conflitto.

Quarto punto: i dazi. L’Italia ottiene l’apertura di un dialogo strutturato su uno dei fronti più sensibili nei rapporti transatlantici. Non è ancora un risultato, ma è una direzione chiara. Trump promette un confronto leale sul commercio con l’Europa e riconosce a Meloni il merito di aver portato la questione con chiarezza e fermezza. In tempi di protezionismo facile, è un passaggio non banale.

Quinto punto: l’Italia si presenta come attore europeo. Non una visita bilaterale di routine, ma un vertice tra un presidente americano e una premier che parla a nome dell’interesse europeo. Meloni ha scelto di non limitarsi all’agenda italiana. Ha portato a Washington i temi strategici dell’Ue: il futuro della difesa comune, il coordinamento industriale, il Mediterraneo come area chiave. Un’impostazione matura, lontana dall’autoreferenzialità.

In questo quadro, il summit Usa-Iran in programma a Roma sabato 19 aprile è più di un appuntamento diplomatico: è la prova del nuovo peso politico dell’Italia. Un Paese che sa ospitare, mediare, facilitare. E una leader che sa tenere il punto, costruire ponti, rappresentare l’Occidente con la forza tranquilla della competenza.

Giorgia Meloni è tornata da Washington rafforzata. Non perché abbia fatto proclami, ma perché ha fatto politica. In un’epoca di rumore e slogan, questo resta un fatto raro. E molto prezioso.


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