La visita della premier italiana a Washington può trasformarsi in una mediazione su cui costruire un’agenda commerciale europea. Alla Casa Bianca ci sono troppi economisti e funzionari che assecondano Trump, senza badare al costo delle loro scelte. La Cina? Pechino ha un vantaggio strategico sugli Usa. Intervista all’economista e docente alla Statale, Giorgio Barba Navaretti
Giorgia Meloni, a Washington, potrebbe anche fare la differenza. O quanto meno provarci. Nelle ore in cui la premier italiana è in volo verso la Casa Bianca per incontrare Donald Trump, nel tentativo di spegnere l’incendio dei dazi e scongiurare una guerra commerciale a oltranza, cresce l’attesa per quello che potrebbe essere molto più di un bilaterale d’ordinanza. Perché, dice l’economista e docente alla Statale di Milano, Giorgio Barba Navaretti, alla Casa Bianca bisogna tornare alla ragione e al buon senso. Prima che qualcuno, non solo l’Europa, si faccia male per davvero.
In queste settimane abbiamo visto un po’ di tutto sui dazi. Prima l’attacco, poi la retromarcia. In mezzo, mercati e investitori perplessi. Che idea si è fatto?
In questo momento c’è molta confusione, stiamo assistendo a un atteggiamento predatorio da parte dell’amministrazione americana, dove il concetto base è: vince chi esporta di più. Questo modo di agire è aggressivo, muscolare, poco visionario e non tiene conto del fatto che il libero commercio equivale a un benessere per tutti, anche per gli stessi Stati Uniti. Direi quasi che Trump, alla fine, si stia facendo del male da solo.
Se Washington corre il rischio di farsi del male con le sue stesse mani, perché Trump è andato così a fondo nell’innalzamento delle barriere commerciali?
Abbiamo visto come i mercati hanno reagito, abbiamo visto il dollaro cadere e gli investitori fuggire, in preda alla preoccupazione e al disorientamento. Vede, i dazi non sono sostenibili, né dal punto di vista dei consumi, né da quello industriale e anche da quello dei mercati. Credo che non ci sia nulla di più grave dell’incertezza e non è un caso che la grande finanza americana, le grandi banche d’affari, abbiano criticato, alla loro maniera, la Casa Bianca. Per rispondere alla sua domanda, Trump è molto capace nel fare il suo gioco politico, questo gli va riconosciuto, ma temo sia anche circondato da una classe dirigente, economisti inclusi, che hanno convenienza a dirgli sempre di sì. Non è facile capire se c’è una strategia lucida a monte per creare disordine o se il presidente sia solo assecondato in tutto e per tutto dal suo staff.
In queste ore la premier Meloni è in volo proprio per Washington. E c’è chi ripone molta fiducia in questo tentativo di mediazione…
Da questo momento dobbiamo aspettarci una serie di bilaterali con la Casa Bianca, segno di una qualche volontà di negoziare da parte degli Stati Uniti con i Paesi partner. La politica commerciale, però, la fa la Commissione europea e in questo senso è essenziale che l’Europa rimanga unita. Se Meloni si fa portavoce degli interessi della stessa Europa, ben venga, agisca. La sua visita può essere utile, se poi però la sua azione trova spazio in un’agenda europea. L’Italia è d’altronde influente sugli Usa e le sue imprese investono molto negli States. Meloni può essere un ottimo mediatore nell’ambito di un’agenda europea, un portavoce che può dare un contributo alla causa del libero mercato.
Nelle more di un negoziato, l’Italia dovrebbe cercare altri sbocchi commerciali, altri mercati dove compensare le potenziali perdite sul versante americano?
Sì, e anche l’Europa. Dovrebbe guardarsi attorno, verso altri scacchieri. Servirebbe un ruolo di leadership nella ricerca di contesti aperti, di aree di libero scambio, ma con regole condivise e uguali per tutti. Questo, peraltro, aumenterebbe la sensazione di isolazionismo statunitense, rafforzando gli interrogativi alla Casa Bianca. Potrebbe essere questa una mossa decisiva, o quasi.
Parliamo della Cina, il vero obiettivo nel mirino degli Stati Uniti.
La fermo se non le dispiace, non sono del tutto d’accordo. Non è davvero così chiaro e palese che sia così, se il Dragone è il nemico pubblico numero uno degli Usa.
Si spieghi.
La Cina è sicuramente il Paese con cui oggi c’è il confronto più aspro, violento. Ma la vera novità portata da Trump è quella di essere andato contro alleanze e partnership strutturate nel tempo, quasi storiche. Lo abbiamo visto con l’Europa, il Canada. Potrebbe, dunque, essere riduttivo dire che il Dragone è l’unico vero bersaglio degli Stati Uniti.
In un combattimento corpo a corpo, però, la Cina avrebbe più da rimetterci o da guadagnarci?
Nessuno ha da guadagnarci, quando si parla di guerra commerciale. Pechino, però, ha un vantaggio strategico non da poco: esporta negli Stati Uniti elettronica e minerali fondamentali per l’industria americana. E questo è un punto a suo favore. In più, essendo un’autarchia, non deve preoccuparsi troppo del malumore delle masse. Inoltre, non dimentichiamolo, Pechino ha in mano una quota cospicua di debito statunitense. Diciamo che in un confronto con gli Usa la Cina non è poi messa così male.