Seduti uno di fronte all’altro. Come due amici. Su due identiche sedie. Come nelle confessioni all’aperto, nei prati, nelle vie, durante la giornata della gioventù inaugurate da Giovanni Paolo II. Ma qui sono due “peccatori” che si parlano. Chi è il confessore? Lo spirito Santo? L’occhio dell’obiettivo? Noi spettatori? La Storia? Una lettura semiotica della “foto dell’anno” di Eusebio Ciccotti
Le mani
Guardate le mani di Donald Trump. Unite e tenute basse, sopra le ginocchia. Anche quelle di Volodymyr Zelensky sulle proprie ginocchia. Ma la mano destra di Zelensky, aperta, è colta in un “atto linguistico” perlocutorio: forse sta dicendo, “parliamo, di questa situazione inostenibilie… siamo bombardati ogni giorno… l’America non può lasciarci soli”. Siamo nella Basilica di San Pietro, è il 26 aprile 2025.

Dov’è il dito indice accusatorio, alla Torquemada, di Donald Trump, puntato all’improvviso contro lo sbigottito Volodymyr Zelensky, davanti a milioni di telespettatori (Casa Bianca, studio Ovale, 27 febbraio 2025)? Quel dito accusatorio («Zelensky, tu non sei nessuno, sei responsabile della guerra, ci devi una montagna di soldi», riportiamo liberamente, ma quello era il senso), che qualche sprovveduto commentatore aveva prefigurato replicarsi anche nella basilica romana della città del Vaticano, non c’è.
No. Quel dito alzato non lo si può replicare nel grande appartamento di Pietro. Nella casa del Gesù καϑολικός. Se non altro per rispetto al “morto”, adagiato in una semplice povera cassa di legno. Lì accanto. Che ti interpella. Quel defunto che sta parlando al mondo intero. Quella salma per la quale, fuori dalla Basilica, in 400.000, sono venuti dalle 5 del mattino. Da ogni parte del mondo, inclusa l’Argentina, o l’America first. Tutti in piedi, adolescenti. adulti e vecchi, sotto quel fondo azzurro di cielo da primavera romana, interrotto qua e là da bianchi batuffoli a pois, che sono le immacolate nuvolette sulle quali si siedono, secondo i bambini, miglialia di angioletti pronti a salutare l’ultimo viaggio terreno del Papa dei poveri.
Non si può, e Trump lo sa, mancare di rispetto a Zelensky, nella casa di Pietro. Tornerebbe a Washington con una popolarità azzerata. Non gli sarebbe mai perdonato se dovesse replicare la parte del bullo dello studio Ovale, di tre mesi fa. Meglio non tracimare nel sovratono; non alzare le mani, come fece a casa sua. Qui sei ospite in Casa d’Altri (Padre, Figlio, Spirito Santo). Saggio tenere le mani basse, soprattutto se dovessero iniziare a formicolare prudendo.
Le sedie
Due sedie identiche per i due presidenti. Uno, Trump, presidente del Paese più potente della Terra; l’altro, Zelensky, presidente di un Paese aggredito da uno dei paesi più ricchi di armamenti del pianeta. Nella casa del Signore, hanno la stessa sedia. L’esperta diplomazia vaticana, fornendo due semplice sedie – non poltroncine, non tronetti, senza un tavolinetto al centro -, sta ricordando ai due (soprattutto al più potente) e, tramite la TV, ad altri potenti, che “in cielo, davanti a Lui, siederemo tutti sulla stessa sedia, o banchetto, o panca, ascoltando il Suo giudizio, prima della destinazione finale”. Lì, accanto a loro, in una semplice cassa di legno, Francesco, li sta ascoltando, li sta vedendo. L’amico dei poveri, ora, semplicemente, li sta precedendo nel sottoporsi al Giudizio finale.
La postura
Guardate la postura del busto dei due capi di Stato. Sono leggermente curvi in avanti, debbono parlarsi, e capirsi, soprattutto tra un madrelingua inglese e un madrelingua ucraino che ha imparato la lingua inglese. Qualcosa può sfuggire. Per cui le frasi, sono brevi, e il lessico scelto con attenzione. Così, noi immaginiamo. L’uno curvo verso l’altro (Trump, leggermente più curvo): sono sullo stesso asse, ossia sullo stesso piano diplomatico, almeno per quindici minuti. Grazie alla millenaria esperienza di incontri sui quali la Chiesa cattolica è caduta spesso ma è risorta ogni volta. Forse Trump, per un momento, ha pensato (ci piace figurarcelo): “Mi debbo contenere, qui sono in un luogo dove si celebra il sacrificio di Cristo, sono in una chiesa. Sono, forse, nel cuore da dove la storia del cristianesimo si è irraggiata nel nell’Occidente e oltre”).
Zelensky, che potrebbe essere suo figlio, è nei panni di quello che ascolta un padre a volte collerico. Ma, privo di timori, avanza con educazione le sue richieste: come fa l’adolescente che reclama, davanti al padre facilmente iroso, con gentilezza, la sua liberà di rientrare oltre la mezzanotte nel fine settimana.
Seduti. Uno di fronte all’altro. Ci vengono in mente i fotogrammi della spianata verde dei prati di Tor Vergata, Giubileo 2000. Migliaia di giovani. Sul palco Giovanni Paolo II che salutava i loro cori, rotenado il suo bastoncino. Mare colorato. Arcipelago contrappuntato, qui e là, da centinaia di coppie di semplici sedie. Poste una di fronte all’altra: un confessore e una/un giovane. Confessioni che poi vedremo in altre giornate della Gioventù in giro per il mondo. Confessionali sotto il cielo che potete incontrare tutti gli anni anche durante il Mladifest di Medjugorje.
La confessione
Due presidenti “peccatori”, nel cuore della Basilica. Si parlano, si confessano, l’un l’altro, soprattutto con gli occhi, parte dei loro timori. Trump forse ora realizza che se non fa qualche passo indietro, potrebbe trovarsi nei guai guastando del tutto l’amicizia con l’Europa. Continente sicuro nella fedeltà, più della Russia e della Cina. Queste sue preoccupazioni, non le confessa, ma gli corrono nella mente. Meglio recuperare il rapporto con Zelensky, andare verso la pace. Zelensky non confessa la sua preoccupazione che la pace si allontani sempre più, per tale ragione chiede con rispetto e speranza. In questo Giubileo della Speranza, ideato da quel defunto lì accanto.
Chi è il confessore? Un religioso o un laico? Entrambi direi. La presenza di Francesco. Lo Spirito Santo. Il pubblico. La stampa internazionale. La Storia. Credenti e non credenti sono soddisfatti.
Il sedersi al centro della Basilica, pubblicamente, davanti agli obiettivi, alle Tv di tutto il mondo, e mostrare la volontà di parlarsi, di incontrarsi, di lavorare per la pace, ne va dato atto a Trump e Zelensky, è stato un atto di umiltà. Forse Trump ha messo da parte la sua superbia. Un incontro dettato da interessi di bottega? Per alcuni commentatori (quelli dall’alito pesante), l’incontro tra i due capi di Stato in San Pietro è stato un mero calcolo ai fini del gradimento “popolare”. Anche se fosse, va bene così: è un inizio di conversione, direbbe Don Bosco.
I volti
La foto “storica” non ci dà i campi e i controcampi, ossia i primi piani frontali dei due Presidenti. Abbiamo una foto dei due seduti, in un piano d’insieme ravvicinato, colti di profilo, dal corpo alla testa. Cerchiamo di leggere i volti, parzialmente visibili. Entrambi sono concentrati. Il profilo del volto di Zelensky appare più sereno. Ha il tono rispettoso di chi chiede aiuto.
Trump ha ingentilito il suo volto, che mantiene però la mascella mussoliniana e il cipiglio un po’ cupo. Ma le sue mani unite e tenute basse, come detto, trasmettono un attegiamento paziente e disponibile. Un lento cambiamento interiore. Sembra voglia dire: “Ti ascolto Zelensky, interverrò per aiutare il tuo popolo, ma tu devi ascoltarmi (…) Il nostro aiuto non mancherà; ma noi non possiamo fare del francescanesimo, ti costerà qualcosa”. Zelensky, con rispetto, lo sguardo fiero del coraggioso fante abituato a camminare in mezzo al fango, ascolta e accetta.
Foto simbolica, iconica o indexicale?
Secondo Charle Sanders Pierce (1839-1914), uno dei fondatori della semiotica, un segno può essere letto come iconico, simbolico, indicale (o indexicale, traduce Umberto Eco) in riferimento all’interpretante,ossia al soggetto che incontra il segno. Le tre dimensioni, per Pierce, sono sempre presenti, in diversi gradi, nello stesso segno.
La formula chimica sulla etichetta di una bottiglia contenente del liquido, per esempio, è soprattutto un segno simbolico, stabilito per convenzione. Ma manifesta parimenti un valore indexicale, ossia indica che in quella bottiglia vi è un liquido contenente quella formula. Infine, in minor forza, assume un rimando iconico, minimo, in quanto quella formula in qualche modo si fisserà nell’osservatore come metafora (una sotto categoria della icona, per Pierce) del liquido. Lo stesso dicasi per le lettere dell’alfabeto: la lettera a rinviante a un suono, è stata scritta abritrariamente. La prova è che ogni lingua ha un suono diverso per quel tratto grafico. In questo caso il segno linguistico è in primis un simbolo. Poi è, secondariamente, anche indicale, indica il suo essere lì, lo vediamo, lo possiamo pronunciare. Infine, col tempo, assume una identità visiva metaforica.
Le due luci, rossa e verde, del semaforo, hanno tutte e tre le accezioni del segno per l’interpretante (il pedone). Il segno predominante è quello simbolico: rosso = pericolo; verde = non pericolo.
Ma l’omino rosso e l’omino verde nel semaforo assolvono a tutte e tre le accezioni del segno, con una (quella iconica) più accnetuata, più “forte” delle altre. Iconica (un pedone stilizzato che rinvia a un essere umano nel momento di attraversare), simbolica (rosso = non muoverti; verde= attraversa); indexicale (il segno-semaforo è posto in prossimità di un attraversamento pedonale).
Infatti nel segno l’aspetto iconico, «realizza il massimo di indipendenza dell’interprentante rispetto all’ogetto indicato» (Augusto Ponzio). La mia foto a colori sul passaporto (rispetto a quella in bianco/nero di quarantanni fa) è una icona che intrattiene una somiglianza massima con il proprietario del passaporto. Indica o rimanda al soggetto che sta mostrando il documento in dogana. Quella immagine è anche simbolo di qualcuno, un vivente, che si accinge ad attraversare una frontiera.
La foto “storica” di Trump e Zelensky, quale segno trasmette primariamente all’interpretante? Certo, innanzitutto quello scatto è iconico: quei due uomini seduti uno di fronte all’altro sono veramente Trump e Zelensky. È indexicale: sono lì in San Pietro, e non in una villa privata. Ma, soprattuto, è un scatto simbolico. La foto rappresenta: il dialogo; la ricerca della pace; il no alla prosecuzione della guerra. Diventerà nel tempo una “foto storica” aumentando (se così ci possiamo esprimere senza tradire Pierce) sempre più il suo grado simbolico. Ossia si fisserà anche come metafora vivente del dialogo politico per eccellenza, senza tempo, contro la guerra.
Ma, a ben guardare, ci accorgiamo che la sua accezione indexicale, in questo momento storico, in queste settimane, si carica anch’essa di un valore aumentato, seppur in forma ottativa. Essa rinvia a sei sedie, indicandole nella mente di tutti gli interpretanti, ancora vuote, sulle quali dovrebbero-potrebbero sedersi: Vladimir Putin, Donald Trump, Ursula Von der Leyen, Volodymyr Zelensky, Keir Starmer ed Emmanuel Macron.