Se si vuole uscire dalla spirale del protezionismo è necessario che ciascun Paese corregga quanto di sbagliato è avvenuto in passato. E che gli Stati Uniti riprendano il controllo del loro ciclo economico, con politiche più prudenti. Ma che gli altri si impegnino di più nel privilegiare le politiche di sviluppo. L’analisi di Gianfranco Polillo
Georgia Meloni, durante la sua visita alla Casa Bianca, dovrebbe, cosa non facile, tentare di convincere Donald Trump ad abbandonare i suoi propositi protezionistici. Puntare sui dazi, come ha dimostrato il necessario dietrofront che ha portato alla moratoria di 90 giorni, rischia di avvelenare le relazioni atlantiche. Di introdurre una frattura profonda nel cuore dell’Occidente. Ma soprattutto di non risolvere i veri problemi degli Stati Uniti. Il cui deficit commerciale indubbiamente esiste, ma non è risolvibile con le misure finora minacciate e poi ritirate a seguito del più generale sconquasso finanziario che avevano prodotto.
Il dollaro, come teorizza Stephen Miran, Capo del Council of Economico Advisers, sarà stato senz’altro sopravvalutato, a causa del suo ruolo di equivalente universale; ma questo è solo un aspetto del problema. All’onere di questa funzione sono stati da sempre associati i privilegi del “signoraggio”. Vale a dire i vantaggi di quel Paese la cui moneta è il pilastro del sistema monetario internazionale. Lo stesso Trump è consapevole di questo bilanciamento. Tant’è che, come ricorda lo stessi Miran, lo stesso “presidente Trump ha elogiato lo status di riserva del dollaro e ha minacciato di punire i Paesi che smettono di utilizzarlo ai fini di riserva”.
L’esperienza empirica dimostra quanto questo vantaggio sia stato consistente. Gli Stati Uniti hanno fatto ricorso ad una robusta manovra di stabilizzazione solo agli inizi degli anni ‘80, per far fronte al fenomeno della stagflation (inflazione più recessione) indotto dal forte aumento del prezzo del petrolio, dovuto al cambio di regime in Iran. Per battere l’inflazione Paul Volcker, che era il presidente della Fed, portò l’effective federal funds rate al 19,1%. Il successo dell’operazione fu quasi immediato. L’inflazione non solo fu rapidamente domata, ma quelli furono, anche, gli unici anni in cui, a seguito della stretta, la bilancia commerciale americana risultò in attivo.
Non è quindi con i dazi, misura puramente congiunturale, che si può affrontare un fenomeno di natura strutturale, quale è il permanente deficit della bilancia commerciale americana (dal 1982) ed al tempo stesso la crisi che l’eccessiva sopravvalutazione di quel fenomeno finisce per nascondere. Quest’ultima altro non è che la conseguenza della Global Financial Crisis, scoppiata, nel 2007/08, a seguito del fallimento della Lehman Brothers. Ed ancora non risolta. In precedenza l’economia americana e quella europea erano andate a braccetto. Un tasso di crescita più o meno simile (una differenza di soli 0,8 punti di media a favore di Washington), un deficit di bilancio molto contenuto (1,9% negli Usa, contro il 2,1% della Ue) un debito più che gestibile fino al 2008 (73,4%, negli Usa, 65,1% nella Ue).
Da quello spartiacque in poi le strade si divisero. Gli Usa affrontarono il post-crisi con politiche espansive, l’Ue nel segno dell’austerity. A distanza di anni quelle diverse scelte marcarono una cesura profonda tra la realtà europea e quella americana. A partire dai livelli di benessere delle rispettive popolazioni. Nel 2008 il reddito pro-capite tra le due sponde dell’Atlantico mostrava una differenza di circa il 30%: 48.470 dollari negli Usa; 37.520 nella Ue. Ma dopo 16 anni, nel 2024, quella differenza era divenuta abissale, pari al 99,7%. Negli Usa il reddito pro capite aveva raggiunto un valore pari a 86.601, nella Ue a 43.353. Dati che dimostrano quanto siano state ingiuste certe accuse nei confronti dell’Europa. Se c’è qualcuno che deve sentirsi “fregato” questi sono i cittadini europei, rimasti vittimi di sé stessi. Vale a dire delle politiche seguite dalle rispettive classi dirigenti.
Il post crisi per gli Stati Uniti assunse caratteristiche inedite. Che, per la verità, avevano poco a che vedere con la dinamica della bilancia commerciale. In leggero miglioramento: essendo passata da una media annua di meno 5,2% del Pil a meno 4,2. Riflessi del venir meno della passata politica delle grandi istituzioni finanziarie a favore dei ceti meno abbienti, più disponibili, rispetto alla middle class americana, agli acquisti di prodotti importati ad un prezzo minore. Risultati ancora migliori erano stati ottenuti dall’andamento delle partite correnti (-4,9% nel primo periodo, -3,4 nel secondo). Miglioramento dovuto al crescente attivo dei servizi e dei redditi primari.
Naturalmente le cose potevano andare meglio se l’Europa non avesse seguito le politiche mercantilistiche. A loro volta conseguenza la scelta deflazionistica, imposta dalle regole del Patto di stabilità. Se avesse svolto, in altre parole, quel ruolo di “locomotiva” che da tempo gli Stati Uniti avevano assunto, costretti dal loro viaggio in solitaria. E che aveva comportato una crescente dipendenza dall’estero. Secondo i dati del Fondo monetario nel 2008 il 77,9% del deficit commerciale americano era imputabile a 20 Paesi.
Percentuale che, nel 2022, era divenuta pari al 97,2%, mentre il deficit complessivo quasi raddoppiava. Nel relativo elenco comparivano 7 Paesi europei: nell’ordine Germania, Irlanda, Italia, Regno Unito, Svizzera, Francia ed Olanda. La somma dei loro attivi commerciali nel 2008 era stata pari al 10,3% del totale, per salire al 14% nel 2022. Dati indubbiamente importanti, ma tutt’altro che risolutivi.
Gli elementi di crisi più significativi, infatti, erano altrove. Riguardavano soprattutto gli assetti di finanza pubblica. A loro volta stressati per consentire il superamento della cattiva congiuntura determinata dalla Global crisi. Già nel 2009 il deficit di bilancio aveva raggiunto, secondo i dati del Cbo (Congressional Budget Office), il 9,8% del Pil. Nel successivo quindicennio la media sarà del 6,2% l’anno. Ancora più drammatici i dati relativi al debito pubblico ed a quello estero. Come si è detto in precedenza, nel 2008 il primo era stato pari al 73,4% del Pil. Valore ancora gestibile. Per raggiungere quota 121% nel 2024. Con una crescita di oltre il 64%. Senza adeguate manovre correttive il debito federale, secondo le proiezioni del Cbo, avrebbe toccato il 169,3% nel 2055. Ad un passo del default.
Gli Stati Uniti non sono il Giappone, che può serenamente convivere con un debito pari al 251%. Più della metà (51,8%) dei titoli emessi (Federal debt held by the public) è in mano straniera. Secondo le indagini del Tesoro americano, per il 40% quei titoli sono posseduti dagli europei, per il 30% dagli asiatici (Cina e Giappone per più della metà), per il 13% da canadesi e caraibici (di cui il 60% nei paradisi fiscali delle Cayman e delle Bermude). Il resto variamente distribuito con una concentrazione minima in Medio Oriente ed Australia.
Una fragilità finanziaria evidente, se si considera che se il rischio aumenta, quei titoli perdono valore, e producono un corrispondente aumento dei tassi di interesse. Con un effetto più persistente rispetto alle normali turbolenze delle borse. Tant’è che oggi il rendimento dei Treasury a 10 anni si è stabilizzato al 4,5% con un aumento di mezzo punto, rispetto ai primi interventi protezionistici decisi da Trump. Tutt’altro che tranquillizzanti, inoltre, le previsioni sull’andamento del deficit di bilancio. Destinato, a sua volta, a rendere più complessa qualsiasi manovra di aggiustamento. Il Cbo stima che, a legislazione invariata, il deficit dei prossimi 10 anni sarà pari in media al 5,8% del Pil: di cui più della metà dovuta alla spesa per interessi, valutata in media pari al 3,8%.
Quindi ben lontana dai valori attuali. Al tempo stesse le spese per la difesa che, nel 2024, ammontavano a 954 miliardi di dollari, rimarrebbero pari, nella proiezione 2025/2034 al 46,2% del deficit di bilancio. Facendo le somme, è facile dedurre che solo per coprire queste poste di spesa (interessi + spese per la difesa) Donald Trump dovrebbe aumentare (circa 0,7% di Pil) la pressione fiscale, piuttosto che ridurla. Su spiega così la richiesta americana, rivolta ai propri alleati, di aumentare il loro contributo per far fronte alle spese per la comune difesa.
Secondo i dati forniti dalla Nato, esse sono state, nel 2024, pari a 1.474 miliardi di dollari. Di cui il 65,6%, per un importo pari a 967,7 miliardi a carico dei soli Stati Uniti. Il resto ripartito tra 30 Paesi (quasi tutti europei) con una partecipazione che va da un minimo di 162 milioni (Montenegro) a un massimo di 97,7 miliardi (Germania). Il contributo italiano è stato di 4,9 miliardi. Al quinto posto dopo Germania, Regno Unito, Francia e Polonia.
L’assemblaggio dei vari dati consente di andare alle origini di una crisi che non è solo americana, ma di tutto l’Occidente. Nel mutato scenario internazionale, i costi relativi al mantenimento di una posizione di relativo comando sono divenuti insostenibili. È cresciuta sia la spesa sociale che quella per la difesa. Negli Stati Uniti, il peso della seconda è diventato eccessivo, per essere sostenuta da un solo Stato, per quanto ricco esso potesse essere. In Europa, ma più in generale negli altri paesi Occidentali, invece, si è registrato soprattutto un tasso di crescita insufficiente, a causa delle politiche stabilizzatrici imposte dalle proprie regole fiscali.
Da qui una crescente divaricazione che ha interrotto quella convergenza progressiva che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, aveva guidato il destino dei singoli Paesi. Fino a sfociare nei contrasti più recenti, in cui sembra quasi che l’Occidente, come complesso di valori, di interessi e di cultura non esista più. Una deriva pericolosa che non potrebbe che favorire suoi storici nemici. Che forse non aspettano altro, sperando in una possibile rivincita dopo i fatti dell’89.
Per evitare che questa accada non basta la mozione degli affetti. È invece necessario che ciascun Paese corregga quanto di sbagliato è avvenuto in passato. Che gli Stati Uniti riprendano il controllo del loro ciclo economico, con politiche più prudenti. Ma che gli altri si impegnino di più nel privilegiare le politiche di sviluppo. In Europa, giungendo quanto prima alla modifica delle leggi del Patto di stabilità, che oggi ne sono tra i principali ostacoli. Facendosi, inoltre, maggior carico degli oneri derivanti da una politica di difesa comune.
Nel frattempo sarà quanto mai utile ridurre quelle barriere tariffarie e non tariffarie che hanno avvelenato il clima commerciale degli anni passati, trasformandosi molto spesso, si pensi solo agli eccessi del green deal, in proposte politiche del tutto velleitarie. Al punto da richiedere per la loro realizzazione, come indicato dalla stessa Commissione europea, investimenti aggiuntivi pari ad oltre 1000 miliardi di euro l’anno per il prossimo decennio. Comunque sia non sarà, certo, facile giungere ad un compromesso. Che rimane comunque indispensabile per evitare una guerra commerciale, che sarebbe solo distruttiva.