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Anche in Africa gli Usa vogliono il burden sharing. Ma la situazione è complessa

Washington spinge per una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei partner africani sul fronte della sicurezza, ma l’avanzata jihadista e delle potenze revisioniste, sommata al disimpegno occidentale, rischia di generare vuoti difficili da colmare

Che l’amministrazione Trump miri a promuovere tra i suoi alleati il “burden sharing” per le architetture di sicurezza militare nei teatri dove Washington è in qualche modo presente, non è certo una novità. Tanto in Europa quanto nell’Indo-Pacifico la Casa Bianca sta portando avanti un approccio mirato a favorire lo sviluppo del ruolo militare dei propri partner nel contenimento degli attori revisionisti, come la Repubblica Popolare Cinese nel primo caso e la Russia nel secondo. E sembra che il trend riguardi anche il continente africano.

Venerdì scorso si è conclusa “Africa Lion”, l’esercitazione congiunta multi-dominio africano organizzata da Africom (United State African Command) a cui prendono parte venti Paesi partner di Washington. Parlando con i giornalisti di Associated Press per commentare le manovre appena terminate, il generale Michael Langley (comandante di Africom) ha affermato che l’obiettivo degli Stati Uniti sia quello di “portare i nostri partner al livello di operazioni indipendenti”, specificando che “ci deve essere una condivisione degli oneri. Ora abbiamo delle priorità precise: proteggere la patria. E stiamo anche cercando che altri Paesi contribuiscano ad affrontare alcune di queste situazioni d’instabilità globale”, ha aggiunto Langley.

Gli Stati Uniti hanno speso centinaia di milioni di dollari in assistenza alla sicurezza verso i Paesi africani, e al momento mantengono circa 6.500 effettivi sotto il comando di Africom sul continente. Quello delineato dal comandante statunitense è un approccio che si sposa perfettamente con le nuove linee guida seguite in questo periodo storico dal Pentagono, incentrate sulla complessiva riduzione delle spese. Ma la sfida sarà quella di rendere lo sganciamento il meno doloroso possibile, rispetto sia alle minacce endogene che a quelle esogene.

Da una parte ci sono le milizie jihadiste e i gruppi ribelli. “Vediamo l’Africa come l’epicentro sia di al-Qaida che dello Stato Islamico”, ha rivelato all’inizio del mese un alto funzionario della difesa Usa (in condizioni di anonimato), sottolineando che entrambi i gruppi hanno affiliate regionali in crescita e che il gruppo dello Stato Islamico ha spostato in Africa il proprio quartier generale.  Allo stesso tempo, il continente è oggetto delle mire espansionistiche di potenze rivali di Washington come Russia e Cina che, come direttrice di penetrazione, sfruttano anche la dimensione militare.

Esemplare per rappresentare la situazione è il caso della Somalia. Secondo l’Institute for Economics and Peace, nel Paese sono stati registrati il 6% di tutti i decessi legati al terrorismo. E Sebbene l’esercito americano abbia aumentato la frequenza degli attacchi aerei contro al-Shabab e Stato Islamico, il generale Langley ha ammesso che l’apparato militare somalo non è ancora in grado di garantire la sicurezza sul terreno. “Ci sono ancora cose di cui hanno bisogno sul campo per essere davvero efficaci”, ha dichiarato, pur riconoscendo timidi segnali di stabilizzazione. Simili criticità si registrano anche in situazioni come quella del Sahel.

In questo quadro, la strategia statunitense di responsabilizzare i partner africani e ridurre l’impegno diretto si confronta con un dilemma strutturale: come conciliare il disimpegno progressivo con l’effettiva capacità dei governi locali di gestire minacce che, nel frattempo, si stanno intensificando? La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro della presenza americana sul continente, ma anche la tenuta dell’intera architettura di sicurezza africana.


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